Principale Economia & Finanza La situazione economica italiana

La situazione economica italiana

di Vittorio Bilardi 

La situazione economica italiana non cessa di sollevare discussione e confronto. Si vorrebbe che sia la prima, sia il secondo, fossero sostenuti da più provvide e approfondite analisi e che ci si concentrasse non soltanto sulle schermaglie comunicazionali. Si vorrebbe che la questione fosse affrontata con la mentalità di una classe dirigente: che si indicassero definitivamente, insomma, le radici dei problemi e, su questa base, ci si sforzasse di indicare i rimedi possibili.

L’Italia è oggi, nel complesso di interdipendenze delle relazioni mondiali tra le nazioni, all’incirca dove si collocava nel periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale: al confine tanto del centro quanto della periferia dei meccanismi dell’accumulazione allargata su scala mondiale. Lì è rimasta per circa un secolo. Ma con sforzi inauditi, che sono stati compiuti da quattro macroimpulsi, continuamente adeguati e rinnovati in un contesto, però, di scarsissima istituzionalizzazione dei mercati, di alta bancarizzazione della mobilitazione dei capitali e di bassa divisione funzionale tra famiglia e impresa, di scarsissima differenziazione sociale tra proprietà e controllo, come è tipico di nazioni a mercati fortemente imperfetti e con scarsissima presenza del mercato dei diritti di proprietà. I cambiamenti tuttavia si sono realizzati, anche se a prezzo di sforzi inauditi, come dimostra la disgregazione di alcuni dei grandi complessi di forze che garantivano un tempo la crescita e come dimostra l’apparire di tensioni alle privatizzazioni con bassi gradi di liberalizzazione che provengono dalle spinte globalizzanti del capitalismo anglosassone: non siamo più come eravamo un tempo, ma non siamo ancora sincronici al cambiamento mondiale in corso.

È questa la tesi che sostiene l’ipotesi da me abbracciata per la quale occorre accelerare il cambiamento, puntando su precise linee di trasformazione per rimettere in moto la crescita, che non può più avvenire come nel passato. Il primo dei macroimpulsi alla crescita è stato costituito dal capitalismo monopolistico di stato, alle origini del medesimo capitalismo italiano, e che ha avuto il suo lungo ciclo preformativo dalla grande depressione ai primi anni del decennio Novanta. Esso è stato quello più colpito al cuore dall’ondata di privatizzazioni, che in Italia è stata impetuosa e, salvo i settori logistico, energetico e militare, ha fatto sì che, con la scomparsa della presenza statale, esso non eserciti più il ruolo che gli era stato un tempo affidato dalla divisione sociale del lavoro. E questo senza che, con la sua disgregazione, si sia visto sorgere un nuovo fascio di forze che ne ereditassero la potenza economica, confermando le tesi sulle tare di gracilità del capitalismo privato italiano. Il secondo macroimpulso veniva dal cuore oligopolistico delle grandi imprese famigliari a cui si aggiunse dopo il 1929 il complesso pubblicistico (IRI ed ENI) e che è andato perduto dopo le privatizzazioni a basso gradiente di liberalizzazione che sono iniziate dopo il Trattato di Maastricht del 1992. Il complesso privatistico famigliare alto borghese non si è rivelato in grado – nell’arco temporale che va dagli anni ‘90 del Novecento sino a oggi – di ereditare, lo ripeto, il complesso imprenditoriale che era proprio e tipico del capitalismo monopolistico di stato nazionale. La presenza di quello straniero, oppure di quello oligopolistico privato straniero, è invece aumentata in modo significativo ed è destinata ad aumentare in futuro. Non vi è nulla di male in tutto ciò.

Purché questo non significhi distruzione di capacità e di competenze che non possono più riprodursi nelle nostre comunità, nelle nostre società intermedie, nelle nostre autonomie funzionali, che formano la nazione. Se ciò continuasse ad accadere, come oggi succede, assisteremmo alla disgregazione del tessuto sociale e relazionale-culturale che è stata la forza della nostra crescita nell’interdipendenza internazionale a partire dal XVIII secolo, ben prima dell’unificazione nazionale. Il terzo macroimpulso per la crescita era ed è quello costituito dal complesso del capitalismo manchesteriano export-lead delle piccolissime, piccole e medie imprese che ha avuto un balzo in avanti a partire dagli anni ‘70 del Novecento per via della mobilitazione sociale che ne è alla base e dell’apertura crescente dei mercati mondiali che ne costituisce la condizione necessaria. Questo macroimpulso è stato quello investito nel ventennio recente da un’ondata di metafisica glorificazione inversamente proporzionale al suo peso produttivo e sociale e alla sua capacità di esprimere un potenziale di lunga durata pari a quello degli altri macroimpulsi per la crescita. I distretti industriali, dopo meno di venti anni, sono di già in una crisi profonda, per via delle strategie sociali che sono alla base della loro nascita. E sono in crisi non avendo prodotto, salvo che in rari casi, imprese leader e fenomeni di consolidamento; si badi, non consolidamento dimensionale, perché non esiste una dimensione ottima, ma consolidamento rivolto all’aumento della produttività del lavoro e quindi alla creazione del valore e di spillover tecnologici virtuosi. Questo macroimpulso, finita la sua dimensione eminentemente manchesteriano-imprenditoriale delle origini, è stato, in tempi più recenti, come mi sono sforzato di dimostrare in taluni lavori, più la creazione di una mobilitazione sociale verso l’alto di classi basse e medie che di iniziative imprenditoriali rivolte alla crescita continua dell’impresa.

E con bassi gradi di innovazione che non sia perfezionamento tecnico e incapacità di scalare i sentieri della tecnologia competitiva come dei mercati finanziari imperfetti, nonostante gli impulsi formidabili che a ciò è venuto dalla globalizzazione virtuosa delle economie e delle società in cui siamo immersi. Conferma di ciò viene dagli indicatori dei rapporti tra banca e impresa, e che non sono quindi riferiti solo a questo macroimpulso, ma che ne sono tuttavia larghissimamente influenzati: eccesso di indebitamento a breve con spiccata prevalenza bancaria se si confrontano i valori con quelli internazionali, elevatissima presenza di garanzie personali, patrimoniali che entrano nel circuito della relazionalità fiduciaria banca-imprese, denotando scarsa differenziazione sociale tra patrimonio d’imprese e patrimonio famigliare, con connotati di riattualizzazione di pratiche precapitalistiche che sono tipiche degli agglomerati economico-sociali di consanguinei piuttosto che transazionali e fondati sull’efficienza allocativa dei mercati, di tutti i mercati, compreso quello della proprietà, che si rivela il più virtuoso e forse il più importante. Il quarto macroimpulso, è giusto che lo si identifichi a questo punto del ragionamento, è stato costituito dal complesso bancario assai variegato di cui abbiamo potuto disporre nella crescita più che secolare e che ora va anch’esso profondamente ridefinendosi.

Si parte dalle grandi banche miste che sono i carburanti della crescita sino al fatidico tempo della grande depressione che indusse alla divisione tra credito ordinario e credito straordinario, distrusse il modello virtuoso della banca universale (IMI docet prima della guerra mondiale, Mediobanca docet dopo di essa), indusse all’affermazione del credito a lungo termine erogato dagli istituti specializzati nel finanziamento alle imprese dopo la seconda guerra mondiale. Qui si produsse, grazie all’intuito di banchieri di eccezione che erano altresì, e contestualmente al loro essere banchieri, grandi intellettuali, un fenomeno eccezionale e tipicamente italiano. Si tratta di Mediobanca, si tratta dell’architrave del compromesso economico e politico tra i primi due grandi macroimpulsi or ora ricordati, compromesso che funzionò sino ai tempi recenti. Quelli dell’avvento dei gruppi polifunzionali e dell’apertura del credito al mercato e alla competizione ancora, tuttavia, altamente amministrata, piuttosto che regolata. Ma quel compromesso funzionò, ricordiamolo, soffocando oligopolisticamente la crescita che avrebbe potuto essere assai più impetuosa senza l’incesto tra grandi famiglie e capitalismo monopolistico di stato. Ricordiamolo oggi, che riappaiono nostalgie di riportare sotto l’usbergo pubblico il credito alle imprese con proposte che non si sa se siano improvvide o rinunciatarie a ricercare una nuova via per la crescita secondo i parametri della creazione di mercati sempre meno imperfetti della globalizzazione virtuosa, anziché, come si vorrebbe da più parti, della rendita oligopolistica e politica. E infine ricordo il ruolo, mai discusso, ancor oggi per fortuna!, delle banche di credito ordinario e della seconda linea di liquidità, vera connessione virtuosa del capitalismo manchesteriano con i mercati locali e internazionali. Connessione fondata, tuttavia, lo ripeto, non sulla relazionalità transazionale tesa all’efficienza allocativa del credito e dei fattori dell’impresa che lo riceve, quanto, invece, sul multiaffidamento alle imprese con cui le banche detenevano e detengono un rapporto fiduciario relazionale.

Qui si è stati dinanzi, ecco il prezzo del rapporto di affidamento fiduciario e non transazional-razionale che Basilea 2 dovrebbe indurre giocoforza e beneficamente, a inauditi sforzi e tentativi non riusciti di scalare le gerarchie dei mercati e delle sfere di potenza internazionale. I risultati raggiunti nella riclassificazione e rigerarchizzazione dei quattro macroimpulsi sono stati scarsi: l’Italia potenza regionale a medio raggio era ed è rimasta. È rimasta nazione con un mix debole, ma sino a oggi efficace, tra mercato interno in espansione dopo gli anni ‘50 del Novecento e una buona serie di rotte dell’esportazione che hanno espresso il meglio dell’industria italiana dopo la congiuntura coreana, sempre gli anni ‘50 e ‘60, appunto. Il cuore pulsante del modello era un nucleo privato e pubblico di imprese oligopolistiche, campioni nazionali che si interconnettevano con un complesso di imprese manchesteriane oppure fornitrici al cuore oligopolistico. Un intreccio di dimensioni, di segmenti merceologici e di sentieri tecnologici che si è mostrato efficace sino all’apertura dei mercati dispiegati. La scommessa era di aprirsi al mercato globale: finanziario, dei beni e dei servizi, “spacchettando” il cuore oligopolistico nella sua struttura pubblicistica per aprirlo alla privatizzazione. La liberalizzazione avrebbe dovuto garantire afflussi di capitali tali da non disperdere il potenziale anzidetto, mentre la crescita delle imprese piccole e piccolissime e di quelle medie doveva trovare sia una espansione nelle esistenti dimensioni di scala, sia una sorta di consolidamento che non perseguisse ottimalità inesistenti, ma che aumentasse la produttività del lavoro e allocasse efficientemente fuori dalla rendita fattori che per lungo tempo da questa erano stati soffocati. Il complesso regolatorio messo in atto negli anni del decennio Novanta del Novecento proprio a questo dovevano servire, unitamente alle trasformazioni intercorse nel sistema bancario.

Il problema attuale è che questa strategia non ha avuto il successo sperato per le ragioni ricordate prima. Siamo quindi dinanzi alla pressione che viene dai mercati globalizzati che intercetta non virtuosamente le nostre ondate esportative rigettandole all’indietro, complice anche il rafforzamento dell’euro. Ma la radice di ciò è l’emergere di nuove potenze globali a fianco di quelle storiche con cui ci siamo secolarmente confrontati e che ci impone di rimeditare fortemente sui nuovi ostacoli alla crescita. A tutto ciò si aggiunge un pericolo gravissimo, di tipo sociale prima che economico e che va analizzato meglio di quanto sino a ora non si sia fatto. Mi riferisco al restringimento del mercato interno per l’enorme trasferimento di reddito e di valore che si è realizzato dal lavoro al capitale in questi ultimi venti anni. Si sono create nuove classi agiate prima inesistenti e si è aumentata la ricchezza dei di già ricchi.

E se la povertà assoluta è naturalmente diminuita, è aumentata quella relativa, dinanzi a un’inflazione che inizia nuovamente ad affacciarsi sul fronte dei prezzi internazionali. Appare il volto di un sottoconsumo che può divenire altamente gravido di conseguenze nefaste per il perseguimento della crescita. Poche e semplici cose, ma essenziali. Come essenziali, spero saranno quelle che dirò qui di seguito. Esse sono importanti, tuttavia, io credo, perché sono la conseguenza che dobbiamo trarre dalla convinzione che tra gli anni ‘80 e ‘90 del Novecento è venuto a compimento, non solo in Italia, una trasformazione irreversibile tanto del sistema politico quanto di quello economico. Tale trasformazione avviene in primo luogo perché va estenuandosi il potere regolatorio e allocativo per via gerarchica che le forze politiche detenevano grazie al controllo delle risorse che derivava loro dalla riproducibilità del consenso elettorale. Quella riproducibilità, in un ambiente a basso grado di competizione, consentiva – e consente – di controllare anche in guisa più o meno rilevante le risorse economiche. La trasformazione di cui si dà conto in questo mio saggio avviene, in secondo luogo, perché aumenta la complessità delle relazioni economiche che si dipanano nella società civile. E ciò per via dei processi di privatizzazione e liberalizzazione in mercati sempre meno imperfetti, che permettono l’inverarsi di una maggiore competizione. Per queste ragioni l’allocazione delle competenze strategiche – non solo nelle imprese – non può più avvenire tramite il potere diretto e immediato dei sistemi di rappresentanza e di associazione politica degli interessi. Si tratta di un fenomeno che non ha investito solo l’Italia, ma che per noi ha avuto una particolare rilevanza per il ruolo che la classe politica storicamente esercitava nei suoi sistemi associativi rispetto alle imprese.

La legittimazione dell’allocazione delle risorse economiche e personali si sposta negli ultimi anni sempre più dalle associazioni e dalle rappresentanze alle imprese e alla società civile, da me definita come l’arena delle relazioni economiche e sociali e non – come oggi impropriamente si fa – delle relazioni politiche prepartitiche (si è dinanzi, in tal caso, alla società politica). Il processo di allocazione delle risorse diventa – da qualche tempo – competitivo, fondato sui risultati economici e sulla trasparenza dei sistemi di governance, più che sul velo d’ignoranza e sulle barriere all’informazione che caratterizzano i processi storicamente dominanti il rapporto tra politica ed economia del mondo pre-competitivo.

La storia dell’Italia, delle imprese, dei mercati finanziari e del lavoro italiani, dall’ultimo ventennio del Novecento sino ai giorni nostri, è storia della trasformazione dei criteri e delle prassi di allocazione delle risorse economiche nazionali-capitali, proprietà, controlli, incentivi materiali e immateriali nel mutato assetto delle relazioni tra potenza politica, azioni promosse dai mercati e inveramento dei comportamenti strategici caratterizzati, insieme, dalla trasparenza e dalla capacità decisionale. La separazione tra proprietà e controllo nella gestione appare essere una potente forza di trasformazione e di creazione delle condizioni per il successo economico per l’impresa, industriale, bancaria, agraria, di servizi. Per questo il “che fare?” deve avere di mira anche politiche pubbliche che facilitino l’inveramento di questo processo. Politiche pubbliche che non possono più essere quelle del passato, per ciò che ho prima affermato, ma che debbono in ogni caso ridefinirsi come politiche industriali tout court, perché debbono creare interventi che vedano la mano dello Stato agire in tutta trasparenza e senza intrusività. Si tratta di riprendere una logica della presenza della mano pubblica in funzione anti-oligopolistica e liberatrice dei mercati, piuttosto che di chiusura e di avviluppamento dei conflitti di interesse. Una prospettiva, del resto, che fu di già propria delle forze liberali, cattoliche e socialiste riformatrici della nostra storia del secondo dopoguerra del Novecento.

Uno Stato, quindi, non dei partiti e non dei gruppi neo patrimonialistici che sono apparsi con prepotenza al potere in questi anni, ma uno Stato, invece, della buona amministrazione, atto a sostenere con legislazioni leggere e universalistiche trasparenze gestionali, incrementi delle risorse e delle competenze sulle linee più competitive su scala internazionale e rivolte ad ampliare e non a restringere il mercato interno e i sistemi di welfare che vanno riformati per essere rafforzati, nel mondo della flessibilità e della competizione globale liberalizzante. Senza vuoti boati propagandistici. L’ultima cosa di cui si ha bisogno è il “glangor di buccine” delle rodomontate. Come accade con quelle sull’istruzione tout court che avrebbe effetti di per sé positivi sulla crescita. Mentre si dimentica che ad avere questo effetto è soprattutto l’istruzione istituzionalizzata tecnica e scientifica. Quella morale, la bildung filosofica e sapienzale che oggi tanto ci manca, dovrebbe essere sempre più affidata alle persone e alle comunità anziché allo stato, liberando risorse e diminuendo la spesa pubblica, secondo la linea del rigore di bilancio che non va mai abbandonata. E le imprese dovrebbero sempre più essere sostenute da un complesso di banche tra di loro in competizione – basta con il “sistema bancario”! – modernizzatore e innovatore, che chieda a esse non più garanzie personali, ma invece adeguate capacità di rimborso fondate sulle prospettive condivise innovative e sui piani di sviluppo a lungo termine che richiedono finanziamenti a lungo termine, appunto.

Il tutto nella continuità dell’impegno per creare un mercato finanziario sempre meno imperfetto e quindi sempre meno banco-centrico, con strumenti sempre più raffinati di copertura dei rischi e di possibilità di stabilizzazione delle relazioni transazionali. Dobbiamo, tutti insieme, forze sociali, imprenditoriali, culturali, decidere quale deve essere la sorte di questo Paese. Quali siano i settori, i sentieri in cui dobbiamo specializzarci per affrontare il futuro che non vogliamo meno globalizzato, ma più globalizzato perché più regolato e più cosmopolita, più includente e meno escludente, socialmente, culturalmente, spiritualmente.

C’è bisogno di una discussione pubblica a cui dobbiamo tutti partecipare da donne e da uomini liberi, con un impegno proporzionale alla responsabilità e alle competenze. Dobbiamo porre le basi per un patto per la crescita dell’Italia, senza timori e catastrofismi, indicando alle nuove generazioni una sfida che possa motivare la loro aspirazione a un futuro migliore.

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