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La raccolta “Carne e sangue”, di Vito Davoli, nell’analisi di Mauro De Pasquale  

E’ complessa la poesia di Davoli. Molto. E la complessità si proclama già dalla copertina di “Carne e Sangue”. La quale riproduce un quadro famoso di Tiziano: l’amor sacro e l’amor profano. Ma con una variante importante, significativa. Nel quadro di Tiziano infatti la posizione delle due figure femminili, quella vestita e la venere nuda, sono situate in posizione inversa: l’amor sacro a sinistra dell’osservatore, l’amor profano alla destra. Un pasticcio? Un refuso editoriale? Nemmeno per sogno. La scelta dell’autore è voluta, pienamente consapevole. Perché la copertina è già metafora, del libro.

Per Davoli, infatti, la realtà può essere tranquillamente intercambiabile, e illusoria, e come Penelope può snodare il filo, così Arianna può tessere la tela. E “una giostra può girare ma non in tondo”, e una goccia potrà essere “lacrima, pioggia, ambrosia”.

Anche “le chiavi tintinnano/senza provare alcuna serratura”, “nessun coccio/si incastra esattamente con un altro./Né resta fermo”, nella risacca sulla battigia.

Perfino la parola “amore” può significare ben altro, se la si pensa con l’alfa privativo (senza usi,

costumi, consuetudini tradizionali o abituali).

E infine come “sopra una linea di confine/rientro ed evado”, così “cielo e mare evadono e rientrano”.

Proprio come, in una litografia di Escher, lucertole in circolo sul bordo del foglio entrano ed escono, in parte sopra e in parte sotto, e nel moto ondulatorio si affermano, si negano, si trasformano.

Allora, “cos’è reale?” si chiede l’autore al primo verso della poesia “Le foglie”. Già, cos’è questa ontologia mobile, oscillante, instabile, questa continua dilatazione e compressione, questa traslazione e trasposizione degli orizzonti di senso, quale sarà mai la funzione di una giostra che gira, sì, ma non in tondo, e che perciò si sottrae a qualsiasi plausibile definizione?

E come si fa a interpretarla, questa realtà, questo difetto assoluto di centro?

Ché è difficile comprendere la funzione della gnosis, la conoscenza, in questa Pesach continua, serie di passaggi in passaggi senza mai approdi sicuri.

E qui la domanda di fondo: come si pone il poeta a fronte di una realtà così concepita? Davoli la azzera, la realtà e ne azzera qualsiasi interpretazione aprioristica.

A questo punto non c’è che una possibilità, anzi una scelta: addensare, comprimere, tutta la propria umanità nella vocazione e nell’esercizio della funzione di poeta.

E’ con la poesia, pensiero, emozione, linguaggio, che si realizza il massimo di tensione nel superamento di sé, nel volersi perdere: “allora sì che perdersi è godere”, elidendo, sì, elidendo sia la realtà sia la propria identità.

E‘ difficile? Possibile? In situazioni? Come tensione ideale? Come “strana eutanasia” essendo “infinito l’amplesso/dell’orizzonte e del tempo”? Perché si vorrebbe, addirittura, rinnegare l’arte? Come fosse devianza costringente, coatta, o scavo “nel terriccio”? Sgradevole sporcizia?

Ma no. Perché “l’arte è un senso oscuro/che quando è dentro trova/artistica ogni cosa”, e “oltre per noi non c’è più nulla/solo il ricordo e forse la poesia”. Quel forse mi piace vederlo – estrapolato – per niente dubitativo. Non credo proprio che Vito se ne possa liberare, suo malgrado, della poesia.

Ed è nell’atto, nel farsi della poesia, che si produce in Davoli, a dirla con Gadamer, un evento ontologico, evento creatore di realtà. La sua realtà. Che è realtà di liberazione, di rivoluzione, aggiungo, in cui esplode la potenza anarchica del poeta, tra sofferenza e insofferenza una tensione acuta ad abbattere “intorno i fortilizi” gli apriori, le certezze, i sistemi costituiti.

“Io tento/di rubare anarchia all’ufficialità”, e anche “ sono l’indomito e scalpitante/cavallo che lotta contro la sella”.

Per questo credo che sia frequente, in tutta la poesia di Davoli, l’accostamento di termini, cioè

pensieri, immagini, che cozzano aspramente tra di loro.

Del resto la prima silloge di Davoli e il suo progetto di trilogia, non portano forse il titolo “contraddizioni”? Questa urgenza ossimorica non spiega forse la complessità di una ambivalenza irrequieta?

Se mi sono soffermato su queste osservazioni, è perché esse costituiscono, a me sembra, i mattoni di base, le fondamenta su cui si eleva la poesia di Davoli e che marcano, insieme a scelta di linguaggio e di stile, la solida unitarietà di questo libro.

Del resto l’ambivalenza irrequieta investe anche le tante poesie d’amore presenti in questo libro, quasi un canzoniere, nelle quali sembra prevalere il prima e il dopo, piuttosto che il durante, dell’incontro, dell’amplesso.

Il poeta dialoga spesso con un tu, o sé stesso, o anche la/le partner a cui è avvinto dalla cogenza del

desiderio, del corpo, dei corpi, con l’esposizione esplicita anche del proprio, corpo.

Può essere tenero l’approccio del dialogo, sia pure “senza fare mazzetti inginocchiato”, ma può essere tremenda la necessità della liberazione dal legame erotico. Perché l’amore, dichiarato dal poeta come “l’ambita prigionia” più ancora che abbandono, più ancora che iddilio, può essere dramma e conflitto.

Ma dove l’insofferenza si fa sfregio e rabbia, nella poesia “Su tristi ceri”, non c’è pietà. E mi chiedo se la citazione liturgica aghios o theos, sanctus deus che Davoli cita in italiano “dio santo, dio forte, dio immortale”, che nella ripresa diventa “dio immorale”, che richiama alito fetido, che appesta l’aria, “di chi bisbiglia peccati in latinorum”, mi chiedo se la formula rituale che si canta nella celebrazione del venerdì santo, proprio nel giorno della passione, nel giorno della crocifissione di Gesù, mi chiedo se sia una scelta casuale, o non piuttosto l’aggiunta di sale e aceto sula punta del pugnale.

Non è l’unico riferimento in negativo a formule liturgiche, quasi che la religione, anzi no, la religione cattolica e, credo, in sottinteso, le religioni positive, le religioni storiche, con le loro gabbie e legacci di dogmi, di precetti, di anatemi, di fatwe, non siano una delle forme “Matrix”più rischiose.

E volendo restare in tema, ecco come Davoli stravolge il senso biblico della genesi a proposito del peccato originale nella poesia “Adamo mio”: con un linguaggio più disteso, addirittura tenero, ma deciso, parla Eva: non è la peccatrice che trascina l’umanità nella disgrazia. Non c’è tentazione del maligno. Eva sceglie lei, con un proprio lucidissimo atto di volontà, di chiedere ad Adamo di cogliere per lei il frutto, il più alto, (il richiamo a Saffo) con tutto il nocciolo da piantare e tramandare per la sua discendenza. Da eroina laica, positiva, consapevole, universale, Eva ripudia il tedio dell’immortalità nell’Eden, il fascino fatuo dell’onnipotenza, per fondare la vocazione della conoscenza come dato costitutivo dell’umanità.

Sempre coerenza, in questo libro.

Ma c’è anche dell’altro, in questo libro. Un’attenzione, una riflessione di carattere diciamo storico e sociale. Certo Sarajevo, ma soprattutto l’attracco della nave Vlora nel porto di Bari, oggetto di una poesia dal ritmo incalzante, travolgente, musicalissima, tutta giocata sull’insistenza dell’anafora, e che appare, a me, di una bellezza nel contempo tenera e fiera.

Non dico altro, se non per accennare, per la riflessione e le emozioni che suscita, alle tante diaspore nel nostro tempo attuale, nel quale sembra prevalere una sorta di calvinismo laico, per cui i cosiddetti ultimi, i cosiddetti scarti, i poveri cristi, proprio in virtù della loro situazione, sono da molti ritenuti, nei fatti, predestinati senza scampo alla dannazione, nel fondo infimo della gerarchia sociale. Perciò si arrangino.

E, per avviarmi a concludere, la tra virgolette filosofia di Davoli gli fa correre un rischio concreto: la solitudine. Si può vivere una vita intensa, impegnatissima, di successo, ma si può essere soli o sentirsi soli -che è lo stesso- dentro.

Ecco come chiude una poesia intitolata, per l’appunto, “La mia solitudine”: “Profuma di incensi di corte / la mia solitudine / e come una regina / senza sudditi urla / in una sala vuota / e resta a consolarsi della eco”.

Mi resta da aggiungere che l’interesse, e la seduzione, che la poesia di Davoli esercita, è anche cultura profonda e poliedrica, è anche linguaggio, che si scompone e si ricompone, costruito e domato con la varietà di timbri e registri, di un esito, si è già detto, profondamente unitario. E di ritmo, di metrica libera e tradizionale insieme, frequenza dell’endecasillabo, anche ipermetro, e le sue combinazioni, insomma “il ritmo del mio dattilo”. La rarità con uso sapiente delle rime talvolta alquanto distanti, a favore delle assonanze e consonanze. Metafore originali e spiazzanti, e quant’altro.

Mauro De Pasquale

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