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Vino, Cultura, Filosofia

Markus Krienke

Il via libero ottenuto dal governo di Dublino circa la segnalazione – con etichette analoghe come siamo abituati per le sigarette – dei rischi di salute sulle bottiglie del vino, e la “conferma” degli effetti dannosi alla salute e al cervello da parte dell’immunologa italiana Antonella Viola ha fatto molto scalpore negli ultimi giorni. Much Ado About Nothing («Molto rumore per nulla»), si potrebbe rispondere con Shakespeare. Non solo perché non è la prima volta che se ne parla e molti medici non sono affatto contrari all’uso moderato del vino, ma soprattutto perché questa provocazione sembra offrire un ottimo assist per richiamare l’intimo nesso tra il vino e la nostra cultura.

Sin dai tempi antichi, il “santo dei filosofi” Socrate fu avvicinato dagli stessi Padri della Chiesa al “supremo filosofo” Cristo, e per entrambi il vino è mezzo per giungere alla verità e alla pienezza della vita: del primo, Alcibiade affermò – come è testimoniato nello scritto platonico Simposio – che «beve tanto quanto uno gli chiede di bere e non c’è modo che si ubriachi». Per fare sì che nei discorsi filosofici si sveli la verità, bisogna liberarli dall’inibizione dei dialoganti e dal controllo delle convinzioni e delle maschere che ognuno nel suo argomentare porta, senza però diventare ubriachi e uscire di senno. E Cristo non solo ha identificato il vino della Pesah con il suo sangue, istituendo l’eucarestia, ma ha usato molte parabole della viticultura per indicare ai discepoli la via per la verità: «io sono la vera vite».

Ci sono però anche filosofi che considerano il vino in una luce decisamente negativa: per Aristotele, egli rovescia l’ordine della natura, rendendo il timido audace, e l’audace timoroso. E anche Kant giudicò il vino nocivo, e pur non potendo concepire un pranzo – di solito lungo e in compagnia – senza un buon quarto di Médoc, non oltrepassava mai questo limite. Non per questo, però, avrebbe preferito altri tipi di alcolici, considerando ad esempio la birra come un cibo e non tanto una bevanda.

Fu Kierkegaard a scrivere un testo intitolato In vino veritas in cui riprese l’antica tradizione del Simposio: nessuno doveva parlare «prima di aver bevuto tanto da poter avvertire la potenza del vino», senza però ubriacarsi. Mentre al contrario Nietzsche, pur celebrando l’ebbrezza dionisiaca, rifiutò l’alcool perché non si deve essere «completamente assorbita da essa», e prospettò così un gioco con cui padroneggiare la stessa ebbrezza: l’unione tra Dioniso e Apollo. Non necessariamente, quindi, l’ebbrezza deve identificarsi con il consumo del vino, come già per l’edonista Epicuro il piacere del vino non porta alla felicità che risulta soltanto dal soddisfacimento dei bisogni naturali necessari, e chiaramente lui non annovera il consumo di vino tra essi.

In questo modo, proprio i filosofi critici al consumo del vino aiutano a individuare come riconoscere al nettare “di-vino” il suo giusto posto nella storia filosofico-culturale dell’Occidente: per giungere alla verità e alla sapienza – in termini greci: alla buona vita – certamente non è indispensabile, ma – goduto nella giusta misura – non è nemmeno disgiunto da questo desiderio, avendo costituito per molti la risposta alla domanda senz’altro retorica di Erasmo da Rotterdam: «varrebbe la pena di chiamare vita la vita se non ci fosse il Piacere?»

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