Principale Ambiente, Natura & Salute A quando il contagio dell’Utopia?

A quando il contagio dell’Utopia?

Il motto dei cavalieri dell’Apocalisse sanitaria dovrebbe essere sicuramente quell’après nous le déluge, all’origine del loro successo.

Non c’è opinionista o commentatore sulla stampa ufficiale come in rete che non si sia convinto e non abbia convinto della fatale necessità di tenere in piedi l’attuale baraccone traballante, nel timore di altro carro dei Tespi, incarnazione del Male assoluto, e che avrebbe la colpa di essere mosso da ambizioni disonorevoli di posto e carriera, animato dalla smania avida di partecipare del contenuto della cassetta delle elemosine europee,  composto da squallide marionette i cui fili sarebbero tirati da oscuri poteri.

E difatti chiunque spericolatamente in questi mesi e in questi giorni ha sollevato obiezioni sulla qualità della compagine governativa e sulla gestione dell’emergenza sociale in atto, dopo essere stato arruolato tra i renziani, i meloniani, i salviniani, insomma categorie meritevoli di Tso come i dubbiosi del vaccino, viene apostrofato con il fatidico interrogativo di rito: ma tu che alternativa vedi al posto del Conte 2, il miglior governo cioè che potesse capitarci anche a detta di  quei naufraghi dell’élite intellettuale che si è ridotta a pensare che per la presenza del Pd e l’imponenza dei democristiani questo possa essere considerato un governo di centro sinistra.

Inutile rispondere che la parola “alternativa” da anni e anni non ha più diritto di cittadinanza da noi, dal Tina della Thetcher, There is no alternative alla dittatura del sistema economico finanziario, all’egemonia dell’austerità, fino al lento e inesorabile scivolamento generale nell’accettazione del neoliberismo, che ha cancellato gli ultimi propositi riformisti intesi a addomesticare il sistema con aggiustamenti che via via si sono ridotti a invocare la manina benefica della Provvidenza secondo Adam Smith, che farebbe spargere anche sugli ultimi qualche granello della polverina d’oro del benessere perfino sugli ultimi e i diseredati, immeritevoli anche antropologicamente e inadatti a creare e accumulare ricchezza come sanno fare i già ricchi.

Il grande successo del neoliberismo consiste anche dunque nel persuadere che si tratti di una teorizzazione e di una costruzione “economica” e non di una ideologia che innerva tutta la società con i suoi concetti di disciplina morale e ordine mondiale, oltre che con la sua concezione dei modi di produzione e consumo,  del mercato, del lavoro,  riuscendo ad occupare militarmente anche il pensare e il proiettarsi in avanti della filosofia.

E d’altra parte dopo un secolo e proprio qui, si persevera nel ritenere che il fascismo fosse un “movimento” – lo ripete anche Wikipedia, nazionalista e autoritario, autarchico e leaderista, mettendo in ombra il carattere strutturale del suo progetto economico e politico, sicché vien facile pensare che lo si possa contrastare nelle sue declinazioni contemporanee mettendo Lucano come immagine del profilo, denunciando la xenofobia dei decreti sicurezza del Conte 1 e applaudendo agli aggiustamenti del Conte 2, condannando il sovranismo facendo i portatori d’acqua alle pretesa di una potenza dispotica sovranazionale che esige la rinuncia ai capisaldi delle democrazie nate dalla resistenza.

E, dunque, avendo rinunciato e abiurato a qualsiasi proposito di ribaltare il tavolo, sul quale si gioca la lotta di classe alla rovescia, ci si può permettere comodamente di celebrare l’utopia del progresso: conoscenza, informazione, libertà, salute, tecnologia, occultando la violenza del dominio, sopraffazione, sfruttamento, inquinamento.

Chi continua a pensare alla necessità di immaginare e concorrere ad “altro” dallo status quo è archiviato come arcaico visionario e sbeffeggiato come patetico velleitario, anche quando – è il caso di Brancaccio che ha lanciato la provocazione “Catastrofe o Rivoluzione”,  volonterosamente si impegna su soluzioni concrete e addirittura praticabili sia pure con il limite di concentrarsi su aspetti squisitamente “economicistici” e meccanicistici, controllo dei movimenti di mercato e di capitali, riduzione del “liberoscambismo”, approfittando dei conflitti interni al Capitale per minarne la potenza maligna, senza poter ragionevolmente contare su  strategie di controtendenza espansive: politiche fiscali e monetarie, allargamento del welfare, estensione del reddito di esistenza, di tipo keynesiano.

Il fatto è che, come ha scritto qualcuno, viviamo nel pieno di una crisi del pensiero che segna il primato del “ritiro”, dell’Aventino di quelli che potrebbero immaginare e aiutarci a praticare una opposizione al totalitarismo, che hanno scelto di appartarsi macerandosi nella frustrazione e nell’impotenza, dimissionari rispetto alla possibilità di mettere in discussione le regole del gioco.

E che ci servirebbero più che mai in presenza di un’emergenza che – come accade da anni – diventa “metodo di governo”  esautorando il Parlamento e demolendo la superstite partecipazione  nei soliti modi, la minaccia e la paura, la  repressione e l’indigenza e costringendo alla abdicazione con il  benessere materiale, di libertà e garanzie personali e collettive, di tutele giuridiche e lavorative e di diritti,  in cambio di salute e sicurezza.

Con una intuizione geniale Carlo Formenti ci ricorda che ormai il marxismo da alcuni viene assimilato al terrapiattismo, per significare appunto la ridicola marginalità di chi conserva il rispetto e la speranza nel crescere e nel fruttare di un nocciolo rivoluzionario, deriso come se volesse realizzare barricate, promuovere prese della Bastiglia, alzare ghigliottine. Lo stesso trattamento però lo dovremmo riservare invece a chi aspetta l’effetto demiurgico dell’eutanasia del capitalismo che starebbe vivendo la sua fase estrema in presenza di contraddizioni e conflittualità endogene. E l’effetto finisce per essere sempre quello del sopravvento della disincantata impossibilità di agire.

Qualcuno invece nutre qualche aspettativa, quella che come il sistema ha saputo e sa rendersi malleabile e adattarsi condizionando e  subordinando i contesti politici e sociali ai propri interessi, proprio questi potrebbero mutuarne le capacità e le “abitudini”, riproducendole e imparando a usarle.

In giro per il mondo c’è qualcuno che ci pensa, che ritiene che  dal ripetersi dei crisi possa germinare un pensiero  inteso a fare di più e meglio che trasformare la dimensione della produzione, occupandosi di portare alla luce quelle “dimensioni” relegate sullo sfondo dalla vernice dei “valori” e delle simbologie  di moda che si riducono alle opposizioni artificiali fra solidarismo ed egoismo, interesse generale e interessi particolari, aspirazione al progresso e orientamento verso la conservazione, con l’intento di neutralizzare il vero conflitto, quello di classe.

In tutto questo chiacchiericcio sulla fase postbellica, si dovrebbe alzare la voce di chi, dopo la distruzione della società compiuta in anni e anni, crisi dopo crisi, emergenza dopo emergenza, vuole costruirsi l’altro possibile. E conquistarsi anche l’impossibile.

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