Principale Attualità & Cronaca Coronavirus. Quando in prima linea c’è anche la Polizia Penitenziaria

Coronavirus. Quando in prima linea c’è anche la Polizia Penitenziaria

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la nota pervenutaci da ‘un casco blu’, operatore della Polizia Penitenziaria, in merito all’attuale situazione creatasi per il Coronavirus. Il nostro giornale continuerà a essere vigile per fornire un servizio informativo alla comunità nazionale, intende servire gli italiani, non servirsene. Desideriamo riposte dal Dap in merito a quanto detto nella nota ricevuta.

‘Continua la sovrapproduzione di disposizioni e provvedimenti da riscontrare con urgenza, se non “a vista”, emanati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, all’indomani dell’emanazione di ogni decreto che porta la firma del Premier Conte, per l’adozione di misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus COVID-19, in barba alla semplificazione amministrativa ed alla tanto auspicata sburocratizzazione.

Sono state previste norme ad hoc da applicare negli istituti penitenziari, che vanno dall’allestire una tenso-struttura esterna al carcere per il triage ai detenuti nuovi giunti, al porre in condizione d’isolamento sanitario i detenuti di nuovo ingresso, sintomatici, al sospendere i colloqui visivi con i familiari, per sostituirli con quelli in  modalità telefonica o video, ad un attento controllo dei pacchi, al limitare i permessi…

Queste misure se sono state certamente prese per favorire un contenimento della diffusione del Covid-19 si sono, tuttavia, scontrate con una realtà complessa.

Gli istituti penitenziari italiani, che già soffrono di problemi cronici connessi al sovraffollamento, alla penuria di uomini, mezzi e strumenti, alla vetustà degli edifici, hanno dovuto recentemente fare i conti anche con le drammatiche conseguenze derivate dalla sospensione dei colloqui con i familiari dei detenuti che ha generato un malcontento generale, apparentemente scaturito da questo provvedimento, degenerato in un vero e proprio attacco allo Stato, con distruzione di interi settori di carceri sparse sul territorio, da Bologna a Modena, da Napoli a Melfi, con ferimenti di agenti di Polizia Penitenziaria ed anche l’evasione di oltre 70 detenuti dal carcere di Foggia!

Al di là dei doverosi ed immediati trasferimenti per motivi di sicurezza, all’indomani delle pesanti manifestazioni di protesta, l’Amministrazione Penitenziaria per prevenire ulteriori sommosse non ha in nessun caso valutato l’opportunità di un temporaneo ripristino del regime “chiuso”, che avrebbe ben messo in sicurezza tutti gli operatori penitenziari, nessuno escluso e molto probabilmente avrebbe anche aiutato nella direzione della prevenzione del contagio tra personale e detenuti.

            Questo, però, non è avvenuto.

Il DAP ( Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ha optato, invece, per una soluzione di comodo: emanare circolari per limitare gli ingressi di terzi negli istituti, disciplinare le modalità di recezione pacchi ed in luogo dei soppressi colloqui visivi, ampliare il numero dei colloqui telefonici a disposizione ed a carico dei detenuti, arricchendoli di videochiamate tramite skype e whatsapp.  

 Questa soluzione, però, non è parsa esaustiva tanto che in seconda battuta, è stata “rilanciato” l’offerta a favore dei ristretti, ovvero consentire videochiamate nazionali, internazionali dei detenuti verso i familiari, gratis, cioè a totale carico dello Stato!!

 In questo contesto di profonda criticità, dopo la tutela del benessere dei detenuti, quale posizione occupano nell’agenda del Dipartimento, la salute ed il benessere del personale di Polizia Penitenziaria?

Se per il personale amministrativo si è applicato il sistema di lavoro “agile”, da potersi svolgere comodamente da casa per quanto possibile, in modo da ridurre le occasioni di contatto e di potenziale contagio, quello del poliziotto penitenziario, invece, poiché rientra nei “servizi pubblici essenziali” al pari del personale medico ed infermieristico, non soggiace alla medesima disciplina dei “civili”, ragion per cui il personale in divisa deve garantire presenza per ogni turno di servizio, che copra l’intera giornata.

Da un punto di vista formale, gli adempimenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per quel che concerne la popolazione dei ristretti, dovrebbero essere “a posto”, con buona pace del Garante Nazionale dei detenuti.

Tempestive e copiosissime disposizioni, infatti, sono “cadute a pioggia” dal Centro sulla periferia, ora sotto forma di misure di tipo gestionale da adottare per la prevenzione da Coronavirus, ora come linee guida sui protocolli da concludere con le A.S.L., ora come riscontri sui monitoraggi da condurre, ora come richiamo al rispetto delle regole d’igiene ed al senso di responsabilità del personale tutto.

Sotto il profilo sostanziale, però, negli istituti penitenziari si naviga “a vista”.

 I D.P.I. –dispositivi di protezione individuale-, che prima dell’emergenza epidemiologica erano strumenti sconosciuti ai più e che ora sono, invece, diventati patrimonio del linguaggio comune, meglio noti come mascherine, tute e guanti monouso, sono stati distribuiti al personale tardivamente, rispetto alla proclamazione della pandemia, sono arrivati in misura contingentata e sono di scarsa fattura, oltre ad essere assolutamente inadeguati anche nelle misure (sono state consegnate mascherine taglia small, tute Junior e scarpe con numerazione dal 34 al 39).

 Ancora, dal livello centrale nessuna disciplina di dettaglio, per un’adeguata formazione del personale sul come, dove e quando adoperare questi dispositivi, è sinora stata diramata, nessuna nota è giunta per chiarire la durata della loro efficacia, con ciò spostando ogni responsabilità sulla gestione dell’emergenza sui singoli penitenziari, che, dunque, si stanno muovendo senza una comune regia, con il risultato che in alcune carceri i D.P.I. si usano sempre e comunque, in altre si centellinano, per non creare allarmismo tra i detenuti e, soprattutto nel timore che si esauriscano.

Questo modus operandi dell’Amministrazione è destabilizzante e rischioso perché espone, soprattutto il personale di Polizia Penitenziaria ad un rilevante pregiudizio per la propria salute, costretto com’è ad operare sempre in prima linea, con poche e inidonee “armi”.

Chi conosce il carcere sa bene, infatti, che la prescritta “distanza di salvaguardia di almeno un metro”, non può essere rispettata quando a prevalere sono le ragioni di sicurezza, una per tutte durante le perquisizioni personali.

 Se è vero come è vero che oltre ai casi sintomatici vi sono a che quelli asintomatici, il rischio per il personale di Polizia Penitenziaria, che entra ed esce dall’istituto ogni giorno, di essere positivo è alto e potrebbe, di conseguenza, comprometterebbe la salute sia di altri operatori penitenziari, ma anche degli stessi detenuti, che, ove mai contagiati, un domani si sentirebbero legittimati ad esperire ricorsi contro l’Amministrazione.

Utile a scongiurare pericoli sarebbe prevedere un “triage” anche per il personale, non solo per i detenuti nuovi giunti e garantire, parimenti, l’uso di D.P.I. certificati. Le mascherine sinora distribuite sono di tipo chirurgiche o antismog, ma come precisato dall’O.M.S, non sono state progettate per difendere dai virus chi le indossa; quelle utili, invece, sono le mascherine FFP2 e FFP3, conformi alla normativa europea, perché hanno un’efficacia filtrante del 92% e del 98%, però è importante conoscerne le istruzioni di base.

Se oggi, dunque, per uscire dalla pandemia, “ognuno deve fare la propria parte”, questo è il momento che l’Amministrazione penitenziaria dimostri interesse e preoccupazione per i propri dipendenti e li preservi, perché alla Polizia Penitenziaria non è concesso lo smart working, ma “gioca” in prima linea e lo si vede!!

Firmato: un basco blu

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