di Martina Paiotta
L’Intelligenza Artificiale, ancora una volta, si è “superata”, e non sempre questa espressione vuole racchiudere in realtà un’accezione positiva. Se credevamo che chatbot, robot e strumenti iper-digitalizzati fossero già “abbastanza”, probabilmente ancora non avevamo assistito al fenomeno degli “influencers virtuali”, un qualcosa di tanto inutile quanto dispendioso.
Quante volte ci sarà capitato di sentir giudicare gli influencers negativamente? E quante volte noi stessi abbiamo -forse- riportato un parere negativo su questi ultimi?
Gli Influencers virtuali sono quindi frutto di una società contraddittoria, una società incoerente, che condanna i giovani “domatori” del web -che guadagnano pure non poco, anzi, tanto, per la loro età!- e che applaude semplici “robot” virtuali, che nemmeno esistono materialmente, ma che svolgono la loro stessa attività.
Al di là della (probabile) gelosia nei loro confronti, in genere, gli influencers vengono “condannati” dalla società a causa di modelli di bellezza distorti ed irrealistici, nonché del lusso (spesso sfrenato) che propongono. Non da meno, sono però gli influencers virtuali.
Quali, dunque, le differenze? Nessuna, se non il fattore discriminante “umano” o “non umano”.
A parere di chi scrive, la figura dell’influencer virtuale non ha dunque alcun senso (se ce l’ha, ancora “non ci siamo arrivati”), non adempiendo ad alcuna funzione utile per la platea di utenti, a differenza di altri “personaggi” decisamente più utili, come chatbot e assistenti virtuali, sicuramente dannosi, per certi versi, ma utili.
I canoni proposti dagli influencers virtuali sono, in aggiunta, a tutti gli effetti i medesimi proposti anche da quelli umani: neanche da questo punto di vista si ha discriminante di alcun tipo; questi influencers “inesistenti” potrebbero infatti essere utilizzati per la promozione di canoni più equi e condivisibili, nonché inclusivi, ma nemmeno da questa prospettiva è possibile apprezzarne l’attività.
E’ bene sapere che questi “modello virtuali” permettono, ai propri creatori/gestori, il conseguimento di incassi di migliaia -se non addirittura milioni- di dollari, e probabilmente questi semplici robot “guadagnano” ancora più dei tradizionali influencers (quelli umani): questo è l’unico scopo -sempre dal punto di vista di chi scrive, non necessariamente condivisibile- per il quale sono stati creati modelli del genere, oltre allo scopo di “intrattenimento”, scopo per altro assai residuale e anche opinabile.
Non solo influencers, ma anche presentatori e presentatrici virtuali, con il compito di introdurre programmi TV e trasmissioni radiofoniche: immaginate quante persone -che hanno tutti i requisiti in regola per farlo e che forse hanno investito somme di denaro per formarsi sotto questo profilo- vorrebbero essere al loro posto.
Ciò ci fa concludere che viviamo in un mondo basato sulle apparenze, dove apparire conta più che essere, in tutti i sensi, ormai. Ma se questo era tristemente scontato, meno scontato è il fatto che viviamo anche in una società altamente ipocrita: per registrare un così ampio successo, questi influencer -virtuali e non- hanno bisogno di una vasta platea e dunque di un certo seguito; è inevitabile concl udere che alla società queste figure affascinano, nonostante ciò che viene affermato di continuo -dal grande pubblico dietro lo schermo- fa pensare il contrario.
Siamo quindi pienamente complici del mondo “frivolo” in cui viviamo, anche se facciamo una certa fatica ad ammetterlo!
Come rimediare?
Sebbene si siano già raggiunti “punti di non ritorno”, al fine di evitare che ulteriori ne siano presto ancora raggiunti, occorre saper distinguere tra “progresso tecnologico socialmente utile”, a vantaggio dell’intera platea di utilizzatori del web, e “progresso tecnologico egoistico”, a vantaggio di poche decine di persone, che cavalcano l’onda del mainstream per benefici esclusivamente personali.
Bisogna saper dire NO a ciò che il mainstream asetticamente ci impone di accettare, e saper rifiutarsi di accettare e normalizzare tutto ciò che viene confezionato e proposto come “progresso tecnologico”, evitando di cedere alla tentazione di seguire e condividere -in tutti i sensi- modelli tecnologici dannosi che a noi non apportano alcun beneficio.
Martina Paiotta