INTERVISTA – Emanuele Fiore ha 24 anni ed è un ballerino barese volato a New York per seguire la sua passione per la danza. Dopo gli studi classici nella sua città d’origine e gli anni di intensa formazione artistica presso l’Accademia dello Spettacolo Unika, ha scelto di continuare il suo percorso oltreoceano diplomandosi alla The Ailey School, la scuola ufficiale di una delle più prestigiose compagnie di danza moderna degli USA, l’Alvin Ailey American Dance Theater. Da allora, sia come ballerino che come coreografo, sta collezionando una serie di successi e di opportunità rinomate, che lo rendono d’appeal agli occhi dei newyorkesi e un grande orgoglio per noi baresi. L’ho intervistato per conoscerlo meglio.
Come nasce la tua passione per la danza?
Ho iniziato a ballare all’età di sei anni nel salone di casa e la frase che ripetevo di più era: “Diventerò un ballerino famoso”. I miei genitori avevano sin da allora capito che la prima cosa da fare sarebbe stata iscrivermi a una scuola di danza e così hanno fatto. Ho cominciato a prendere lezioni tutti i pomeriggi, impegnandomi sempre di più man mano che crescevo. Ovviamente da piccolo non sai realmente quali sono le difficoltà che una certa strada comporta, però ero spinto da così tanta passione che l’ho intrapresa quasi inconsapevolmente fino a quando mi sono reso conto che avrei davvero voluto farla diventare la mia professione.
C’è stato un momento in particolare in cui hai pienamente realizzato ciò?
Circa durante gli ultimi anni di liceo mi son detto che volevo entrare nel vivo di questa esperienza e scoprire fin dove mi avrebbe portato. Non credevo però che sarei arrivato sino a New York, non era ancora nei miei pensieri né avevo mai pensato di poter frequentare un’Accademia così importante. Ci sono quasi capitato per caso, è stata una cosa da “nel posto giusto al momento giusto”. Ho sostenuto le audizioni per il Certificate Program della Ailey School e quando sono stato ammesso non ci ho riflettuto così tanto, anzi ho detto subito sì. Nonostante un infortunio al ginocchio, un anno dopo ho preso tutto ciò che avevo – lasciando in sospeso un corso di laurea in Fisioterapia, che intanto avevo cominciato, e soprattutto famiglia e amici – e sono riuscito anche con una pandemia di mezzo a diplomarmi il 5 maggio del 2023.
Sì sa che purtroppo al sud vivere di arte non è ancora visto come un lavoro a tutti gli effetti. Da tale punto di vista, la tua famiglia come ha preso questa decisione?
I miei genitori hanno sempre appoggiato le mie scelte. Ovviamente hanno comunque cercato di indicarmi l’opzione migliore al fine di potermi creare un futuro stabile. E in questo senso lavorare come ballerino a New York fa davvero la differenza rispetto a farlo in Italia, al sud, quindi per il momento non ho da preoccuparmi. Qui ci sono tantissime occasioni ed è sempre stimolante: conosci molte persone, tutte le loro culture e così inevitabilmente impari e cresci come persona, ma acquisisci anche consapevolezza del tuo potenziale e ti crei un network che in qualche modo non ti lascerà mai senza progetti a cui prender parte.
E, invece, da noi perché non si può far lo stesso secondo te?
Il nostro Paese dovrebbe partire dalle basi: innanzitutto cominciare a conoscere l’arte – della danza nel mio caso – a livello mondiale e in tutte le sue sfaccettature, a coltivarla per il suo valore socio-culturale e non solo per business televisivo, e di conseguenza dovrebbe accettarla come un lavoro. Premesso ciò, andrebbe aperta a tutti coloro che dopo anni di impegno e di investimenti nella formazione vogliano provare a percorrere questa strada da performers. Dico questo perché l’Italia è estremamente selettiva per alcuni stili di danza e ciò comporta che non c’è possibilità per tutti. Andrebbero ampliate le prospettive e allargate di più le vedute. E poi ci vorrebbe più educazione a riguardo. Ti basti pensare che da piccolo uno dei miei più grandi tormenti è stata l’omofobia degli amichetti che vedevano un bambino con la voglia di danzare come stranezza e come mancanza di virilità. Questo spesso inibisce e porta i ragazzi ad abbandonare il proprio sogno. Fortunatamente a me non è andata così, anzi crescendo ho ricevuto tanto appoggio da parte di molti amici e tanta ammirazione.
Sempre tenendo conto delle tue origini, hai incontrato qualche difficoltà quando sei arrivato a NY?
In verità difficoltà non ne ho incontrate. Sarà che New York è una città che mi piace proprio perché è piena di vita, ti prende e ne sei totalmente folgorato non solo per quanta gente c’è o per la velocità con cui conduce le proprie giornate, ma per la carica e la libertà che esprime. Mi rendo però anche conto che è una mia sensazione, in quanto molti altri invece trovano questo un aspetto negativo che a lungo andare schiaccia. Io no, ero pronto a ricevere questa energia e infatti mi sono sentito molto meglio rispetto a quando ero a casa a Bari, dove la realtà è molto lenta e ripetitiva. Sento che New York è la città fatta per me.
Cosa ricorderai per sempre del tuo percorso nella Ailey School?
Di certo tutte le esperienze. Ho potuto ballare per diversi coreografi, tra cui Clifton Brown, Amy Hall Garner, Darrell Moultrie e Ronald K. Brown, e con la prima compagnia, l’Alvin Ailey American Dance Theater, al New York City Center. Questo è stato uno dei momenti più belli e più importanti della mia carriera nella scuola. E poi sicuramente non dimenticherò mai la cura che riservano all’insegnamento, cioè l’attenzione nel formare gli allevi e spiegare passo dopo passo come svolgerli al meglio. È stato un ambiente per me salvifico: mi è stato di grande stimolo non solo – come dicevo – per i maestri, ma anche per gli altri studenti che, venendo ognuno da un background differente, hanno contribuito ad accrescere le mie conoscenze e ad insegnarmi che esiste una competizione sana, priva di invidia, che sfocia nel concetto di “comunità” tanto amato dagli americani. Intendo, quel senso di sentirsi un solo gruppo e di supportarsi costantemente, cosa che per i danzatori italiani è invece molto difficile comprendere.
Dopo il diploma, cosa è accaduto?
Subito dopo ho avuto l’occasione di poter lavorare per uno spettacolo di “Ailey Moves NYC!” a Little Island coreografato da Matthew Rushing. In seguito, ho cominciato a fare audizioni e sono stato scelto in molte compagnie, tra cui la Matthew Westerby Company 2, AFFEKT Dance Company, e poi successivamente in autunno sono stato preso dall’Amanda Selwyn Dance Theater. Recentemente, invece, sono stato preso in un’altra compagnia, Bodystories: Teresa Fellion Dance, con la quale ho potuto esibirmi inizialmente come un guest artist. Inoltre, a gennaio ho danzato in un loro spettacolo per una Convention di danza molto importante chiamata APAP, come sostituto di un ballerino che si era infortunato. In soli cinque giorni ho imparato le coreografie e, avendo dimostrato di essere super smart, la compagnia ha deciso di inserirmi tra i loro ballerini fissi. Nel frattempo ho preso parte anche ad altri progetti, come “lo Schiaccianoci” per una scuola del New Jersey. La prossima settimana farò anche il mio debutto nell’off-Broadway con “Sempreverde: Evergreen” di Incanto Productions, un musical educativo bilingue italiano/inglese in cui sarò l’unico ballerino uomo e avrò l’occasione di poter girare in tour per New Jersey, New York e Long Island.
In tutto ciò, ti sei cimentato anche come coreografo.
Sì, ho sviluppato quest’altra passione con il tempo e a novembre scorso ho messo in scena il primo spettacolo che porta la mia firma “What about Love?” alla rassegna Spark Theatre Festival. La mia coreografia è stata scelta tra molte altre candidate all’evento e questo è per me un onore oltre che un attestato di stima nei confronti di un talento da poco scoperto. Inoltre, la sera della prima ha registrato soldout ed è stato molto apprezzato direttamente dal direttore del Festival. Quindi, un doppio sprone per me per continuare anche in questa direzione e affinare un’altra abilità.
Non hai mai avuto paura di essere uno su un milione in America?
Beh sì, certamente perché tutti quanti vogliamo arrivare ad alti livelli ma per farlo dobbiamo comunque pian piano arrampicarci e scalare una vetta alla volta. Tuttavia, la cosa bella di New York è che tu puoi crearti la tua voce, quindi nonostante tu sia uno su un milione che vuole danzare, tu sei tu e non c’è nessun altro come te. Nel caso in cui dovessi perdere un’occasione, so che ce n’è sempre un’altra dietro l’angolo. Non bisogna mai pendersi d’animo perché quando ne perdi una, molto spesso è perché ce n’è un’altra ancora più grande che ti aspetta. Quindi il concept è: ad un’audizione magari quella volta non ti prendono perché forse stanno cercando qualcosa di particolare in cui tu non rientri, però poi frequenti l’ambiente, continui a seguire classi, fai vedere di essere interessato, e vedrai che la gente comincerà ad accorgersi di te e a volerti dare una chance. La chiave sta proprio nel perseverare sempre. Ci sono ballerini che ripetono certe audizioni anche per dieci volte senza esser presi, ma poi all’undicesima riescono a far colpo e ad entrare in compagnia. Il dover fallire tutte quelle volte, non è un vero fallimento, è semplicemente parte del percorso che porta ad evolverti e ricrearti ogni volta. E’ questo che secondo me rende tutta questa esperienza straordinaria, quindi perché farsela rovinare dalla paura?!
Torneresti in Italia?
Beh sì, perché mi piacerebbe un giorno portare ciò che sempre più avrò appreso fuori con l’obiettivo di far crescere il mio Paese d’origine. Secondo me è importante andarsene per imparare ed è altrettanto importante, direi essenziale, tornare per poter essere testimone e transfer di ciò che hai assimilato e contribuire al cambiamento. E magari metteremo fine alla fuga di cervelli.
Come vedi Emanuele nel futuro?
Lo vedo preso dalla creatività e ancora più carico di passione per poter continuare a dare di più, a realizzare tutti i suoi sogni e a far valere ogni singolo sacrificio compiuto in passato. Anche quando il mio corpo sarà vecchio, io continuerò ancora a danzare.