Antonio Magagnino, nato a Matino (Lecce) ex Carabiniere nel ruolo di Ispettore, con 26 anni di servizio nell’Arma tra Roma, Brindisi e Viterbo, appassionato di paracadutismo ed equitazione, è un tenace scrittore e ricercatore di fatti d’arme della “Fedelissima”.
Ha pubblicato “L’eccidio della colonna Gamucci”/Herald Ed./2015, vicenda che si consumò in Albania a danno dei Carabinieri Reali.
Proseguendo le sue ricerche e approfondimenti ad ampio spettro ha tirato fuori un’altra pubblicazione “La foiba di Kremenar e l’eccidio della colonna Gamucci, o Grotta dei Pipistrelli nel 1943”/Porto Seguro Editore/2022.
La prefazione del Generale di Divisione nella Riserva dei Carabinieri Raffaele Vacca, Medaglia d’Oro al Merito della Sanità Pubblica; Medaglia d’Oro al merito dell’Ambiente, è una testimonianza di apprezzamento al lavoro di indagine svolto da Antonio Magagnino.
Su quest’ultimo libro, di cui copia inviatami in omaggio dall’Autore, cercherò di sintetizzare il fatto di sangue avvenuto a Kremenar che mi richiama alla mente un’altra triste vicenda avvenuta nel 1943 a Selenizza (Albania) grazie alla segnalazione di un altro ricercatore dell’Arma dei Carabinieri: Giuseppe Mancini con il quale collaborai anni fa con l’invio di una squadra di speleologi altamurani per individuare la foiba dove furono trucidati 130 Carabinieri insieme al Col. Ricci, loro Comandante; mio articolo sul giornale on line: “Corriere nazionale.net” del 5.8.2019 – L’eccidio di Selenizza in Albania ancora irrisolto”.
Il fatto di sangue, su cui orbita l’intero racconto del Mar. A. Magagnino, è da inquadrare nel clima del nazi-fascismo; nell’invasione dell’Albania e dei rapporti che si instaurarono con le popolazioni locali. Certamente non mancarono rappresaglie da parte di entrambi gli schieramenti italiani e frange partigiane comuniste albanesi, questi ultimi visceralmente cattivi, violenti per i loro disumani trattamenti verso i prigionieri italiani.
Episodi narrati con dovizia di particolari dall’Autore attraverso documenti e testimonianze dirette, raccolte durante i suoi anni di ricerche sia tra gli archivi storici conservati presso il Ministero della Difesa Italiano che in Albania.
I fatti più spietati e terribili si riferiscono ai giorni dell’armistizio 8-19 settembre 1943. Il caos tra le truppe italiane, nella “narratio”, è alle stelle.
Molti albanesi si macchiarono dei più efferati genocidi, come Mehmet Schehu, uno dei più temibili aguzzini, diventato dopo la guerra Primo Ministro, il quale per sua opera fu scoperta una fossa a Shipeska vicino Korca con dentro centinaia di cadaveri, molti dei quali scorticati vivi, con i piedi montati su ferri di cavallo e con organi genitali tagliati (pag. 64). Per mano dello stesso criminale furono sepolte vive, dico vive, centinaia e centinaia di persone catturate, uomini donne e bambini, tra cui stranieri e dissidenti, solo perché non condividevano l’ideologia comunista (pag. 64).
Non mancarono ovviamente atti di infedeltà da parte di militari italiani. Il trentenne sergente toscano e disertore, Terzilio Cardinali, da sempre di fede comunista, offrì i suoi servigi al predetto Mehmet Shehu, accettando di unirsi alla resistenza albanese, contro i suoi stessi compagni e del suo Paese. Erano uomini impauriti, braccati e affamati.
Dei 1.776 partigiani censiti, 206 erano pugliesi, di cui 78 baresi, 17 brindisini 34 foggiani, 60 leccesi, 17 tarantini; purtroppo avevano capito che per la libertà non esistono paesi sbagliati, ma solo parti sbagliate; nacque così il Battaglione Gramsci interamente composto da italiani e appartenenti alla Brigata partigiana albanese (pag. 67)
Un altro fatto di sangue narrato a pag. 67 si intreccia con quello di mia conoscenza, appunto quello di Selenizza; il Ten. Col. Giuseppe Ricci e il Ten. Spahiu (albanese) entrambi dell’Arma, catturati nella stessa circostanza dell’1 aprile 1943, furono soppressi ed i cadaveri abbandonati all’aperto, in diverse località.
In questa fase stragista non mancano nomi di rilievo nella narrativa dell’Autore, tra cui Enver Hoxa, comunista e divenuto poi dittatore del Paese delle Aquile.
Costui insieme ad altri suoi collaboratori tra cui Xedhal Staravecka, Kadrì Hoxha (non imparentato col primo) e i fratelli Kole e Mark Berisha furono tra i maggiori responsabili dell’eccidio dei militari italiani nei fatti delle miniere di Selenizza; militari che dopo l’agguato furono gettati in una fovea e ricordata da sempre come la grotta dei pipistrelli, in località di Kremenar di Fratar, un piccolo villaggio dell’epoca, ancora oggi esistente, situato a pochi chilometri ad Est del distretto di Fier.
Anche qui l’Autore, Antonio Magagnino, da investigatore riesce ad intercettare documenti d’archivio riservati e a rintracciare in Italia diversi famigliari delle vittime, tra cui nonna Margherita e la moglie del Brigadiere Giovani Minnai; siamo nel 2018.
L’accanimento contro i Carabinieri Reali era dovuto al fatto che i Partigiani albanesi vedevano in quei militari l’ordine e la legge; rappresentavano un Paese d’occupazione e pertanto dovevano essere eliminati.
L’armistizio generò uno sbandamento generale in tutte le Forze militari italiane presenti in Albania. La caccia agli italiani da parte dei partigiani albanesi iniziò lo stesso giorno; da amici erano diventati nemici. Oltre 20 mila disertori italiani si dettero alla macchia sulle montagne, accolti da famiglie povere del posto; molti giovani militari italiani non rientrarono più in Patria, ma si rifecero una vita nel paese ospitante.
Antonio Magagnino, detto Tony, conclude che i Carabinieri di Selenizza (130) furono gettati nella foiba di Kremenar l’1 aprile 1943; mentre quelli del Ten. Col. Giulio Gamucci (111 Carabinieri) furono uccisi il pomeriggio del 4 novembre 1943, a Guri i Muzaqit, a circa 1.680 metri sul livello del mare, sul Monte Panit, nord-est della città di Labinot, Albania.
Gli interrogativi che si pone l’Autore sulle atrocità commesse dai partigiani comunisti albanesi contro i Carabinieri Reali non sono mai stati chiariti dalle autorità italiane competenti. Mancanza di volontà per non turbare il fragile equilibrio politico nazionale? Oblio dichiarato contro quella pagina nera di storia nazionale?
Però, oggi, l’Albania definita provincia italiana dagli stessi albanesi, dopo l’accoglienza data alle migliaia di profughi fuggiti dalla miseria del dittatore Enver Hoxa negli anni Novanta del secolo scorso, i fraterni rapporti specialmente con la vicina Puglia, si potrebbe pensare ad un atto di riconciliazione per commemorare tanti militari italiani che persero la vita in quel conflitto.
E’ un atto di doverosa umanità; i buoni rapporti di vicinanza e di solidarietà col popolo albanese sono una sufficiente dimostrazione per chiedere al Paese delle Aquile di apporre una targa in memoria in quei luoghi dove sono stati trucidati i soldati italiani. Almeno per giustificare che la Patria non li ha dimenticati. Questo messaggio è rivolto alla Premier Giorgia Meloni, viste le ottime relazioni in corso tra la diplomazia italiana e quella albanese.