La mente di ogni uomo è inevitabilmente portata a pensare che, al di là di ciò che appare come molteplice e mutevole nel tempo, vi sia una sostanza unica (un uno) che rimane sempre uguale.
L’esistenza di questa “sostanza” che, come suggerisce l’etimologia della parola, “sta sotto” e “sostiene” la realtà di tutto ciò che esiste (sia esso fermo o in movimento o mutamento) appare alla nostra mente come “innegabile”.
Infatti non è possibile pensare che una cosa che “non è” (non esiste) possa muoversi o mutare. Ciò sarebbe contro sia la ragione che contro l’esperienza.
Pensiamo, pertanto che se una qualsiasi cosa si muove e muta, per muoversi e mutare, deve prima “essere” (esistere, sussistere), e che, per quanto muti, almeno in qualche sua parte, essa deve rimanere in ogni caso una e sempre uguale, immutabile.
Pensiamo pertanto che deve “logicamente” esistere una sostanza prima, immutabile, una e unica.
Una volta giunta a questo punto, la nostra mente intravvede la possibilità di risolvere il problema il problema della morte.
Appare infatti possibile pensare come segue.
La sostanza unica esiste, ed è perfetta perché è immutabile ed è una, ed eterna. Nulla ci impedisce di pensare che la questa sostanza, essendo perfetta, possieda la capacità di pensare e che pertanto sia anche “persona intelligente”: ente consapevole di esistere e di pensare.
Ciò pensato, il problema dell’immortalità degli esseri umani è risolto.
La logica ci porta a pensare che “questa persona”, data la sua perfetta intelligenza e quindi perfetta bontà, non potrebbe non avere a cuore la sorte di quell’altra persona intelligente che è l’uomo mortale.
A questo punto però il pensiero della necessità logica di una sostanza prima, unica, e una entra in crisi. Se analizzato attentamente, esso si rivela inaspettatamente “contro ragione”.
Osserviamo.
Se la sostanza prima dell’essere esiste, essa non può che essere perfetta; e se è perfetta deve essere necessariamente semplice ossia completa in se stessa e senza parti o elementi distinti che la compongano. Deve essere anche immutabile in quanto “semplice” ossia formata da un solo elemento. Quindi:
- Nella composizione della sostanza stessa non può sussistere alcuna carenza o mancanza, o difetto di essere;
- Non vi può essere né all’interno né all’esterno di essa un qualsiasi altro “essere” o “ente” distinto e diverso dalla sostanza medesima.
- Se vi fosse altro ente o all’interno o al di fuori dell’essere perfetto quest’ultimo non sarebbe più perfetto e semplice, ma diventerebbe “composto” e “limitato”.
In breve. L’essere primo, perfetto, semplice, e uno deve essere (ed essere pensato) come il tutto-uno, semplice e immutabile. In altre parole “tutto ciò è”, il massimo di essere possibile e pensabile, l’uno assoluto e perfetto ed anche
l’unico essere o ente esistente.
Al di fuori dell’uno perfetto, assoluto e semplice ci può essere soltanto “il nulla”.
Ci troviamo qui di fronte
al paradosso dell’essere uno e perfetto.
Una volta dato per esistente l’essere uno perfetto l’esistenza delle cose molteplici percepibili dai nostri sensi risulta “inesistente” e “impossibile a pensarsi”.
Fermiamoci un momento.
La realtà perfetta semplice e una appare “necessaria” in quanto sostanza dell’essere, ma nello stesso tempo rende impossibile e impensabile l’esistenza delle cose molteplici.
Ed ecco che ci troviamo a pensare come segue. Le cose molteplici e percepibili dai sensi non appaiono certo perfette, ma ci appaiono, e sono comunque pensate, come “esistenti”, e non possono di certo essere pensate come “non esistenti” e meno ancora come “nulla”. Impossibile dunque negarne l’esistenza.
Il paradosso, in breve, è così enunciabile.
Se esiste la realtà perfetta la realtà molteplice e percepibile dai nostri sensi non può esistere; ma il molteplice percepibile dai sensi, pur pensato come imperfetto, deve essere pensato come realtà “esistente”; e però per la sua imperfezione ci obbliga a pensare alla realtà perfetta.
“Ora raccoglieremo tutte le nostre forze (dopo un’opportuna pausa di sospensione del nostro pensare al fine di attenuare il senso di disagio) per vedere se c’è una via d’uscita dal paradosso.
Rileveremo ora che la nostra mente si sente più a suo agio quando pensa alle cose molteplici e può pensare ciascuna di esse come “un uno” (un’unità) che non è però uno assoluto e perfetto ma limitato e relativo. Ciò avviene ad esempio nella più semplice operazione dell’aritmetica: 1+1=2. Nella quale stanno insieme, senza alcun paradosso, sia uno che molteplice (più di uno, due).
Sembra quindi che partendo dal concetto di molteplice il paradosso scompaia.
Ma vediamo subito che non è così. Osserviamo infatti che la realtà delle cose sensibili è bensì concepita come esistente, ma nello stesso tempo viene pensata come imperfetta. Nel senso che per il suo continuo mutamento di forma del tempo siamo portati a pensare che essa ha avuto un inizio e avrà fine. E ancora, tutti i molteplici movimenti e mutamenti delle cose, dei fenomeni sensibili avvengono nel tempo con questo ciclo: inizio, evoluzione, fine. Ciò è quotidianamente sperimentabile. Gli esseri viventi, in particolare, nascono, si sviluppano e muoiono. Tutti i fenomeni naturali hanno un’origine, uno svolgimento, una fine. Ognuno di essi ha poi avuto origine da qualche altro e tutti insieme non possono che aver avuto origine da una realtà che sta al principio. Oppure, in altri termini, tutte le cose sensibili nella loro molteplice apparenza sono in realtà costituite dalla medesima sostanza originaria che tutte le comprende e le spiega. Una realtà che è e deve essere pensata come “realtà perfetta o uno assoluto”.
Ci ritroviamo così inevitabilmente di fronte al terribile, insuperabile e inaccettabile paradosso.
Il ragionamento riprende in modo circolare:
il molteplice nega l’uno; l’uno nega il molteplice.
La nostra mente non riesce ad uscire da questo circolo. Per quello che ci risulta (ma potremmo ovviamente essere in errore) nessuno finora è riuscito nella storia della filosofia a risolvere questo problema.
(continua)
*Brano tratto dal libro Uno e molteplice di Giorgio Pizzol