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Taiwan e Mar Cinese Meridionale: come la Cina prepara la terza guerra mondiale

Paolo Mauri

Partiamo da un numero: 150. Nei primi cinque giorni del mese di ottobre Taiwan ha visto almeno 150 incursioni di velivoli cinesi nella propria Adiz (Air Defense Identification Zone).

Si tratta di un numero record. Taipei ha affermato che il mese scorso gli aerei militari cinesi, inclusi bombardieri, caccia e aerei da ricognizione, erano entrati nella sua Adiz 117 volte mentre il numero totale di intrusioni, quest’anno, ha invece già superato le circa 380 che si sono avute in tutto il 2020.

Solitamente Pechino usa questa tattica come dimostrazione di forza in concomitanza di particolari eventi che riguardano l’isola, come la visita di personalità politiche di spicco statunitensi, feste nazionali, elezioni o semplicemente a seguito di accordi o vendite di armamenti a Taipei. Quest’anno, però, qualcosa sembra essere cambiato, e non stiamo solo parlando della progressione esponenziale delle incursioni nell’area di identificazione aerea dell’isola “ribelle”.

Pechino vuole Taipei

Pechino non ha mai del tutto escluso il possibile uso della forza per raggiungere l’unificazione con Taiwan e non ne ha mai fatto segreto. Le dichiarazioni ufficiali che rimandano a questa volontà, però, si sono fatte via via più frequenti: lo scorso luglio era stato lo stesso presidente Xi Jinping a sostenere di volersi impegnare per completare la riunificazione con l’isola, promettendo di “distruggere” qualsiasi tentativo di indipendenza formale. “Risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della madrepatria sono i compiti storici incrollabili del Partito Comunista Cinese e l’aspirazione comune di tutto il popolo cinese” si era spinto a dire Xi in un discorso in occasione del centesimo anniversario di fondazione del Partito.

Un leader che sta diventando un autocrate, avendo accentrato su di sé cariche come quella di comandante in capo del Pla (People Liberation Army) Joint Battle Command, una sorta di Stato maggiore della Difesa cinese, rompendo così la storica dicotomia tra Partito ed esercito.

Taipei è però legata a Washington, che, anche se non intrattiene ufficialmente relazioni diplomatiche con essa, ha però stretto un legame – il Taiwan Relations Act – che le permette di sostenerla dal punto di vista militare, facendone, a tutti gli effetti, un suo alleato al pari del Giappone o della Corea del Sud.

Alleati che, oggi, sono necessari agli Stati Uniti per cercare di mantenere la Cina nel suo ambito continentale, e un tempo (insieme al Vietnam del Sud), per avere un baluardo davanti alla possibile saldatura sovietico-cinese che avrebbe portato a un’espansione del comunismo in Asia: il famoso “effetto domino” alla fine mai concretizzatosi per le stesse declinazioni orientali del socialismo reale che ha visto anche affrontarsi militarmente Paesi comunisti (si pensi al conflitto sino-vietnamita i cui effetti si fanno sentire ancora oggi).

Questione di… fette di salame!

Stati Uniti che hanno tenuto un atteggiamento diplomaticamente ambiguo sulla questione taiwanese: se l’amministrazione Trump aveva lanciato concreti segnali di appoggio a Taipei, quella Biden, dopo un primo porsi nello stesso solco, ha recentemente affermato di voler rifare sua la dottrina “One China”, ovvero di riconoscere esclusivamente l’esistenza della Repubblica Popolare. Una mossa forse dettata dalle contingenze – l’escalation verso l’isola – e dalla volontà di mantenere lo status quo per avere più tempo per disporre le proprie pedine militari nell’Indopacifico dopo la ridefinizione di posture e programmi di armamento.

La stessa tattica è stata del resto usata con pieno successo nel Mar Cinese Meridionale. Qui Pechino, lentamente ma costantemente, ha dapprima costruito isole artificiali o occupato alcune già esistenti negli arcipelaghi delle Paracelso e Spratly, poi vi ha edificato infrastrutture dual use, poi vi ha trasferito armamenti (sebbene avesse sempre affermato che non l’avrebbe fatto), infine, il mese scorso, ha imposto che tutta una serie di navi debbano comunicare i propri dati alla Guardia Costiera cinese (Msa – Maritime Safety Administration) prima di entrare in quel mare conteso: di fatto un primo vero passo verso la sua nazionalizzazione, che sarà sicuramente imminente quando verrà dichiarata una Adiz sopra quelle acque.

Sul fronte opposto gli Stati Uniti e i suoi alleati si impegnano a far rispettare il diritto di libera navigazione e quello internazionale (codificato nell’Unclos dalla Cina ratificato peraltro), ma potrebbe non essere abbastanza, almeno dal punto di vista cinese. Il dragone sta affilando gli artigli con una campagna di riarmo (grazie a maggiori investimenti nella Difesa) senza precedenti che si riflette nell’aver costruito la più numerosa flotta militare del mondo (sebbene non la più potente per il momento) quindi si avvicina velocemente il momento in cui si sentirà talmente forte dal dare la zampata per Taiwan o per il Mar Cinese Meridionale.

Assuefare le difese

Proprio l’aumento esponenziale delle incursione dei velivoli cinesi nella Adiz di Taiwan deve essere letto come un campanello di allarme. La tattica di Pechino, a nostro avviso, qui è duplice: aumentando gradualmente l’intensità delle provocazioni (il “salami slicing” già menzionato) sta saggiando la reazione degli Stati Uniti per capire quanto siano disposti, perdonate la metafora da Guerra Fredda, a “sacrificare Chicago per la libertà di Taipei”; secondariamente, e molto più sottilmente, sta facendo in modo di “assuefare” le difese dell’isola a questo tipo di azioni.

Perchè? In questo modo, facendo diventare le incursioni routine quasi quotidiana, c’è la possibilità che, un domani, si facciano trovare impreparate davanti a un vero e proprio attacco. Non sappiamo, però, se la difesa aerea di Taiwan, ad ogni incursione, punti minacciosamente i radar da attacco delle proprie batterie missilistiche, ma il rischio che si trovi assuefatta c’è.

Lo stesso principio vale per il Mar Cinese Meridionale: anche qui la Cina sta saggiando la reazione dei suoi avversari, e gli anatemi lanciati al passaggio di unità navali alleate, come il Csg della portaerei Queen Elizabeth o la fregata tedesca, dimostra ancora una volta come Pechino non intenda cedere sulla questione della sovranità su quello specchio d’acqua.

Chi scrive ritiene che sia molto più facile che le prime cannonate di un conflitto, che assumerebbe molto rapidamente le caratteristiche di uno mondiale, saranno sparate qui, invece che nello Stretto di Taiwan, in quanto la Cina, sebbene consideri l’opzione militare, continua a ritenere di avere chance per un’unificazione pacifica, secondo il principio “uno Stato due sistemi”. Principio, però, che non ha più molta validità dopo quanto accaduto a Hong Kong, dove vigeva sino a poco tempo fa. Qui Pechino ha dato una stretta illiberale che ha palesemente contravvenuto agli impegni sottoscritti, dimostrando che il dragone, una volta presa coscienza della propria forza, considera certi accordi “carta straccia” al pari dei regolamenti internazionali.

In questo c’è un’affinità di pensiero, se pur con un ordine di grandezza immensamente diverso, con la Russia. Mosca, al pari di Pechino, si sente stretta in regolamenti internazionali che considera in contrasto col proprio diritto alla sicurezza e al benessere, ma, e qui sta la grossa differenza, propone di cambiarli di concerto con la comunità internazionale, arrivando all’uso della forza solo quando non ha altra scelta (vedere caso Crimea).

Proprio la Crimea ci permette di parlare di questa strana amicizia tra Cina e Russia: le sanzioni internazionali post annessione e post conflitto nel Donbass, hanno letteralmente gettato l’orso russo tra le spire del drago cinese nonostante i tentativi dell’Occidente di cercare un “reset” che potesse instaurare un asse ovest-est passante per l’Europa da contrapporre alla crescita di Cina e India.

Tentativi fallimentari perché partivano sempre da un presupposto di superiorità dell’Occidente e perché a Mosca non si è mai del tutto voluto venire a patti dopo il disastro degli anni post dissoluzione dell’Unione Sovietica. Oggi quindi Mosca si trova a dover, forzatamente, guardare a Pechino: nei primi tre trimestri di quest’anno, il commercio tra Russia e Cina è aumentato del 29,8% su base annua, ammontando a 102,529 miliardi di dollari di scambi. In particolare le esportazioni verso la Russia nel periodo gennaio-settembre sono aumentate del 32,4% (47,401 miliardi di dollari), mentre le importazioni di beni e servizi russi sono aumentate del 27,6% (55,128 miliardi di dollari) facendo quindi registrare un saldo positivo per Mosca.

Questo spiega perché, qualche giorno fa, Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri del Cremlino, abbia esplicitamente detto che “la Russia vede Taiwan come parte della Repubblica popolare cinese” appiattendosi quindi sulla visione di Pechino, ma più ancora staccandosi nettamente da ogni possibile visione (ambigua) statunitense.

Le pedine si stanno muovendo sulla scacchiera, il cronometro corre, la partita che si sta giocando non riguarda solo il futuro di Taiwan o del Mar Cinese Meridionale, ma la definizione delle future regole internazionali, e sappiamo bene qual è l’unico modo di cambiarle se non si trova un accordo seduti intorno a un tavolo.

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