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“Eroi senza macchia, senza paura e capaci solo di straccianti vittorie… almeno così li raccontano!”

A scuola studiamo le campagne di Napoleone, i successi, le sue clamorose sconfitte e ce lo figuriamo come un personaggio eccezionale come senz’altro doveva essere stato, molto tempo prima, Alessandro Magno.

Sempre a scuola, ci insegnano delle straordinarie capacità di apprendimento di intellettuali come Leopardi e noi, assieme ai venti o trenta alunni che compongono la scolaresca, ipso facto, impariamo che tra noi e queste figure esiste un’incolmabile distanza, suffragati dall’esperienza quotidiana che ci parla di fallimenti più che di vittorie.

Ci iscriviamo poi all’università e notiamo che quell’amica dall’intelligenza per nulla brillante ha superato tutti gli esami del primo e del secondo anno col massimo dei voti mentre noi ancora arranchiamo sotto la condanna inappellabile di amici e familiari che non si capacitano di come mai non siamo stati in grado di superare quel certo esame, visto che tutti gli altri non hanno incontrato difficoltà alcuna e stanno studiando già per quello successivo. Anche in questo caso ci facciamo l’idea di una differenza, un grande differenza, tra quei nostri amici così bravi e noi, il nostro tremare di fronte alla più piccola difficoltà come se sulla fronte di ciascuno fosse impresso con caratteri di fuoco la scritta “vincente” o “perdente”, una volta sola ed una volta per tutte. Per fortuna ci capita anche di scoprire che Albert Einstein fu rimandato in matematica, ma questo risolleva poco il bilancio che incominciamo a fare della nostra esistenza, così come non lo risolleva l’apprendere che Temistocle, il generale ateniese che batté l’armata persiana di Serse, ci riuscì tramite l’abile stratagemma di far sapere al nemico che i Greci non erano affatto coesi, ma anzi molti di loro erano pronti alla defezione, cosa per altro verissima. Erodoto ci riferisce che il valoroso Temistocle non brillò certo per la sua specchiata moralità, visto che dopo la vittoria a Salamina prese a vessare popoli indifesi per trarne ingiusti vantaggi economici. Discorso non dissimile lo storico fa anche riguardo a Milziade.

Tuttavia, nel nostro immaginario questi personaggi rimangono figure eccezionali, risolute, che facciamo fatica a immaginare esitanti di fronte ad una decisione, insomma fatichiamo a figurarceli uomini, come invece furono. Li immaginiamo artefici, padroni dei propri destini e perciò stesso migliori di noi, moralmente migliori perché capaci di partorirsi migliori di noi, che viviamo in una società le cui istanze tutto sommato questo ci fanno credere, benché studiosi come Bauman sottolineino che lo cose non stanno affatto così anzi, che in abstracto ognuno di noi può tutto ma nella “società liquida” nella quale concretamente operiamo ben poco dipenda davvero da noi.

Questo non significa che i grandi personaggi della storia e della cultura, ma non solo, di ogni civiltà siano stati personaggi comuni. La sola cosa che possiamo dire è che questi personaggi, come noi, “sono stati”, tutto il resto se non ciò che all’esterno è rimasto delle loro gesta e dei loro pensieri, ci è ignoto perché ignoto è di fatto ciò che siamo noi a noi stessi, figuriamoci ciò che gli altri sono o sono stati. Se così non fosse, la storia si ripeterebbe sempre uguale e ad onta dei corsi e ricorsi vichiani, benché alcune dinamiche si ripresentino tal quali, i loro esiti hanno conseguenze imprevedibili che possono essere valutate solo parzialmente ex post. Si prendano in considerazione, ad esempio, gli accadimenti relativi alla Rivoluzione Francese: nulla di simile si era verificato prima e pertanto nulla, da allora in avanti, sarà più storicamente paragonabile al prima di quegli straordinari eventi. Analogamente, non è che siccome ad Atene per la prima volta ebbe origine la democrazia, quella democrazia può considerarsi in tutto uguale alla nostra democrazia, benché gli elementi di assonanza nessuno possa negare che vi siano, pur rimanendo nel loro numero piuttosto esigui. Mi preme però a questo punto tornare al discorso dal quale ero partita, quello cioè relativo al rapporto tra ciò che chiamiamo vittoria e ciò che intendiamo per sconfitta.

Ci immaginiamo spesso le une e le altre schiaccianti, come quelle studiate sui libri di storia, da parte di forze impossibili da contrastare. Nella realtà quotidiana sperimentiamo che le cose quasi sempre non stanno così e che tanto le vittorie quanto le sconfitte sono spesso di misura, frutto di estenuanti battaglie in cui si sperimentano tanto le une quanto le altre e che nell’esito finale della guerra esse si distanziano in realtà di pochi “punti” le une dalle altre.

Una volta che la vittoria o la sconfitta sia compiuta, essa lo sarà per sempre nella nostra storia personale, ma fino ad un attimo prima no. Esiste cioè, fino alla fine, sempre una possibilità di mettersi in gioco, di giocare la partita per coraggio o perché obbligati, di mettere in campo le nostre forze che solo ex post ci parleranno di un esito. L’esito finale è fatto di infinite unità di spazio e di tempo e nessuno di noi è in grado di prevedere in anticipo quale esso possa essere. La sola cosa saggia da fare è sempre porsi in cammino, iniziare a salire la scala nell’unico modo che a tutti gli esseri umani è consentito e cioè un gradino per volta. Su questa buona norma è curioso come tutti gli intellettuali di ogni tempo si siano trovati d’accordo: Erodoto con Hermann Hesse, Tucidide con Baudelaire, sì proprio il poco virtuoso Charles Baudelaire, che ebbe una volta a scrivere: “è opera lunga solo quella che non osiamo incominciare: diventa infatti incubo”. Scritto anche dal poeta, non mi pare che sia cosa saggia incamminarsi per un diverso sentiero.

Rosamaria Fumarola

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