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“Chi ha sofferto senza perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del vangelo”,  disse Joseph Ratzinger 

“Chi ha sofferto senza perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del vangelo”,  disse Joseph Ratzinger 

Pierfranco Bruni

Joseph Ratzinger  in  “Il Dio di Gesù Cristo” ebbe a scrivere: “Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiri­ti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, do­ve l’umorismo muore, qui non c’e nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della gra­zia. Chi è profondamente sereno, chi ha sofferto senza per que­sto perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del vangelo, dallo Spirito di Dio, che è lo Spirito della gioia eterna…”.

Viviamo di macerie. Di anime e di corpi. E’ come se non avessimo più memoria e identità (a dirla con Giovanni Paolo II). Un tempo che precipita in una contraddizione profondamente religiosa.  Seneca sosteneva: “Quando entri in un bosco popolato da antichi alberi, più alti dell’ordinario, e che precludono la vista del cielo con i loro spessi rami intrecciati, le maestose ombre dei tronchi, la quiete del posto, non ti colpiscono con la presenza di una divinità?”. Il bosco e la foresta sono metafora di buio e di caos.

Ci salverà la preghiera? Ci salverà il Vangelo. Cristo che sciogli i nodi nella Croce della vita.  Siamo figli che cerchiamo nel bosco una fa lama di luce e nella foresta uno spicchio di umile speranza. Restiamo avventure oltre l’orizzonte. Nella “Imitazione di Cristo” il viaggio ha il suo sentire: “Nessuno è più ricco, nessuno è più potente, nessuno più libero di chi sa abbandonare se stesso e ogni cosa e porsi all’ultimo posto”. Dobbiamo uscire dal bosco che ci tormenta. Che tormenta la nostra frequente quotidianità. Da laico in Cristo credo che c’è una “teologia” del Cristo che ci possa far capire la storia. Ci possa far capire le lacerazioni nella storia.  I Papati sono sempre dei simboli!  Se si è cristiani veri si segue la solitudine di Benedetto nella eredità di Giovanni Paolo. Solo il relativista senza il senso del mistico guarda a Bergoglio.

Un maestro di Fede è Benedetto XVI.  Affidarsi al “potere del silenzio” è comprenderlo (Robert Sarah).  “Pascere vuol dire amare, e amare cuol dire anche essere pronti a soffrire”, così nella “Omelia” che il Papa Benedetto XVI pronunciò il 24 aprire del 2005. Benedetto XVI citava spesso una chiosa di Sant’Ignazio di Antiochia nella quale si sottolinea: “E’ meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere”. Si tratta di una Lettera agli Efesini. Il grande Pontefice, ovvero il Papa dallo sguardo lungo e dalla preghiera contemplante.  Perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini mel messaggio paolino.

Ci domandiamo, come dovrebbero chieder solo tutti i pellegrini in Cristo, perché Benedetto XVI è ancora papa? È un costante dialogare che parte proprio da Cristo nella centralità di un umanesimo che va oltre le frontiere di Bonifacio VIII per attraversare San Paolo nella Damasco del deserto e compiersi in Agostino che detta il linguaggio delle confessioni grazie alla definizione della bellezza come metafisica e mai come teologia. A questi riferimenti si era ancorata anche la filosofa spagnola Maria Zambrano, sulla quale lavoro da decenni per cercare di definire un pensiero come confessione appunto anche di un genere letterario. Zambrano è tra Sant’Agostino e Paolo.
Agostino diventa il porto che emerge dal sepolto per farsi Terra Promessa. Ma è il concetto di infinito che si sottolinea sia in Kierkegaard che in Dostoevskij in una dimensione che va oltre la siepe e si focalizza proprio nel concetto di eterno. Allievo di Don Giussani. Attenzione. Oggi Don Giussani non è Comunione e Liberazione e questa non è assolutamente l’espressione di ciò che disse e scrisse Don Giussani. E’ un dato da chiarire con molta precisione perché la confusione è tantissima nel gregge dei liberatori della comunione.

Scrive Don Luigi Giussani: “Ognuno di noi è stato scelto attraverso un incontro gratuito perché si renda egli stesso incontro per gli altri. È dunque per una missione che siamo stati scelti…”. Una missione in questo nostro tempo. La lacerazione che ci attraversa tocca il vuoto delle coscienze ed è indifferenza il legame tra laicità e relativismo, tra sostanza ed essenza. Siamo dentro un viaggio privo di metafisica. Siamo anche stanchi ma mai ci si arrende. Mendicanti di deserti o nel deserto. Rincorriamo la Grazia e la Voce.

Don Luigi Giussani: “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo“. Una “parabola” che diventa la metafora vera di questo nostro tempo di contraddizioni e scavanti lacerazioni. Siamo in cammino. Quale sarà mai il nostro porto o la nostra Isola o il nostro stare tra le vele in mare aperto?

La lezione di Don Giussani diventa caratterizzante come quella di Benedetto XVI ed è chiaro che siamo ad un pensiero forte e non relativista come nei tempi bui che luce non conoscono.
Fragilità e certezza. Due punti di partenza. Eterno e infinito. Due punti di arrivo.
Perché questo?  Pronunciava spesso San Francesco d’Assisi: Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.

Scrive San Tommaso d’Aquino: “L’ultimo fine della vita umana è la visione di Dio”. Allora qui si incontrano la filosofia dell’umanismo e la teologia cristologica. Infatti è il “Cantico delle Creature” che pone una tale dimensione nella quale ci si rispecchia.
Senza il valore dell’eternità nessun concetto avrebbe più senso. Si incontrano il cercare e il trovare e interagiscono. Nella vita inquieta del cristiano vale l’osservazione che Kafka scrisse nel 1916: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato”.
Siamo in quel cammino del mendicante al quale facevo riferimento con Don Giussani e al quale rimanda l’immagine di Giovanni Paolo II.
Dobbiamo percorrere l’esistenza immortalando sempre l’anima della memoria. Bisogna  soffermarsi su ciò nello splendido “La profezia finale. Lettera a Papa Francesco sulla Chiesa in tempo di guerra”.

Ancora una volta viene chiamato in causa Don Giussani quando sottolinea: “Io credo che, se non ci sarà prima la fine del mondo, cristiani ed ebrei possano essere una sola cosa nel giro di sessanta -settanta anni”.
abbiamo bisogno della consapevolezza metafisica in un tempo in cui la guerra dichiarata ai cristiani dal mondo Ottomano investe una gravissima geo-esistenza. Una guerra dichiarata contro la tradizione della cristocentricita’. È vitale sapere ciò che Blaise Pascal sosteneva:  “Il cristianesimo è strano. Ordina all’uomo di riconoscersi vile e abominevole, e gli ordina di voler essere simile a Dio. Senza un tal contrappeso, quella elevazione lo renderebbe orribilmente superbo, oppure quell’abbassamento lo renderebbe terribilmente abietto”.
Gli strumenti cattolici attuali sono debolissimi.
Insomma si scontrano modelli di cultura e  paesaggi di civiltà in una fase in cui la distinzione tra Cattolici e Cristiani è ben consistente.

Il viaggio non smette. Ma noi cristiani in Cristo poniamo come principio fondamentale la Tradizione. Resta fondamentale Sant’Agostino: “Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione”. Viviamo in un tempo di tristezza come ebbe a interrogarci l’alloraJoseph ‎Ratzinger: “Ora che abbiamo pienamente assaporato le promesse della libertà illimitata, cominciamo a capire di nuovo l’espressione “tristezza di questo mondo”. I piaceri proibiti hanno perso la loro attrattiva appena han cessato di essere proibiti. Anche se vengono spinti all’estremo e vengono rinnovati all’infinito, risultano insipidi perché sono cose finite, e noi, invece, abbiamo sete di infinito”.


In questi tempi dolorosi non dobbiamo mai smettere di essere testimoni di Cristo. Ma dobbiamo soprattutto saperlo testimoniare. Nel mistero dell’incontro e dell’infinito il Cristo rivelante. Lungo quale strada percorrere il cammino? Resta l’interrogativo ma abbiamo bisogno di vivere nella Profezia.

Così Maria Zambrano: “Il sapere delle cose della vita è frutto di lunghi patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante di lucida visione. Tale sapere si rivela dietro un evento estremo, un fatto assoluto, come la morte di qualcuno, la malattia o la perdita di un amore”. Il problema si pone con molta gravità, oggi. Benedetto è la cristianità nella tradizione. In quella tradizione in cui il mio viaggio si fa rivelante! Tutto ciò a cosa è affidato? “Fai come se tutto dipendesse da te, sapendo che tutto dipende da Dio”(S. Ignazio di Loyola).

Perché Bendetto XVI è ancora papa? Egli sottolinea: “Possiamo nel silenzio della ‘notte oscura’, ascoltare tuttavia la Parola. Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore” (2013). Non vanno dimenticate le parole di questo grande Pontefice pronunciate nel momento della sua andata via dal Soglio di Pietro: “Chi crede si affida completamente a Dio e per questo non teme di perdere nulla, avendo Lui come ricchezza”.

Perchè tutto ciò? Il suo saluto sta in questa benedizione: “Dio è amore. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi”. Il bosco e la foresta  hanno lame di luce soltanto nella fede in Dio. Cosa ci resta? Ciò che disse sempre Benedetto: “Oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno. ‘Vado e vengo a voi’: è questa la fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia”.

La lezione si Sant’Agostino resta fondamentale: “Fai quello che puoi e chiedi quello che non puoi. Ed Egli farà in modo che tu possa”. Le parole di Benedetto restano incisi. “…Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti – quel Dio  che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle genti – questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della terra. Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è il potere vero, duraturo. La causa di Dio sembra trovarsi continuamente come in agonia. Ma si dimostra sempre come ciò che veramente permane e salva. I regni del mondo, che Satana poté allora mostrare al Signore, nel frattempo sono tutti crollati. La loro gloria, la loro “doxa”, si è dimostrata apparente. Ma la gloria di Cristo, la gloria umile e disposta a soffrire, la gloria del suo amore non è tramontata e non tramonta…” (Benedetto XVI, in  “Gesù di Nazaret” ). In attesa della speranza! Per il cristiano la profezia è andare oltre il davanzale della speranza!

 

 

 

 

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