Principale Politica Diritti & Lavoro Mario Pavone le nuove competenze del giudice di pace

Mario Pavone le nuove competenze del giudice di pace

Mario Pavone,
avvocato patrocinante in Corte di Cassazione, è Presidente ANIMI

Indice:
Prefazione
Presentazione dell’autore
Capitolo I – Il giudice di pace civile e penale
Capitolo II – Reati di competenza del giudice di pace e profili di incostituzionalità della nuova normativa
Capitolo III – Il processo dinanzi al giudice di pace penale
Capitolo IV – Le nuove competenze del giudice di pace in tema di immigrazione
Capitolo V – Le innovazioni apportate dalla legge n. 271/2004
Capitolo VI – Le condotte riparatorie dinanzi al giudice di pace
Capitolo VII – Le necessarie modifiche da apportare alla normativa ed il disegno di legge
Appendice
Postfazione

Postfazione
di Saverio Fortunato
(Specialista in Criminologia clinica, Direttore della rivista Criminologia.it)

Mario Pavone è un valente avvocato patrocinante in Corte di Cassazione, quindi, conta una lunga esperienza forense sulle spalle. Studioso dei fenomeni dell’immigrazione, presidente di una prestigiosa associazione (ANIMI) che ha a cuore il problema dell’immigrazione, attento ai problemi della criminalità, da tempo, in dottrina, scrive saggi e articoli di rilievo[1].
“La nuova competenza del Giudice di Pace in materia d’immigrazione”, “Le innovazioni apportate dalla Legge 271/2004 e la modifica delle garanzie”, “Nuove critiche dei magistrati al DL 241/2004”… sono alcuni suoi saggi che, pubblicati in dottrina, hanno anticipato l’orientamento giurisprudenziale che si è visto emergere dalle sentenze dei giudici di pace di Taranto, Brindisi e di altre città.
Ho conosciuto Mario Pavone ad un congresso della Società Italiana di Criminologia, dove egli ha relazionato sul tema: “La traduzione degli atti, diritto dell’imputato straniero”, facendo riferimento, da studioso, “agli episodi di micro-criminalità sempre più diffusi, attribuibili alle organizzazioni criminali che, provenendo dai Paesi extra-comunitari, hanno assunto un ruolo dominante nel panorama della criminalità organizzata che affligge in generale tutti i Paesi Occidentali e che genera nuovi problemi al Legislatore chiamato ad adeguare la normativa vigente alle mutate condizioni sociali[2]”.
Il libro di Pavone raccoglie le nuove disposizioni giuridiche che riguardano la professione del Giudice di Pace. Egli, avrebbe potuto limitarsi a pubblicare l’opera da tecnico per tecnici, ossia con la sola raccolta della normativa, invece ha eseguito un’operazione culturale, per ricordarci che: a) il diritto è disciplina ermeneutica, ossia attiene all’interpretazione del fatto; b) il diritto non può prescindere dall’interpretazione più autentica del fatto[3], altrimenti si trasforma in diritto punitivo, poliziesco, terroristico, liberticida[4].
L’opera di Pavone, difatti, arricchita dalla prefazione di un illuminato magistrato inquirente, raccoglie ed esprime, di per sé, quella vicinanza umana ed intellettuale che deve sempre esistere tra giudici e avvocati, evidenziando così l’umiltà intellettuale e l’acume dell’autore, ancor più perché viviamo in tempi così difficili tra magistratura ed avvocati, tra politica e società, tra scienza e scientismo. Scriveva Piero Calamandrei: “Il segreto della giustizia sta in una sua sempre maggiore umanità, e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta comune contro il dolore: infatti, il processo, e non solo quello penale, di per sé è una pena, che giudici e avvocati debbono abbreviare rendendo giustizia[5].”
Pavone in quest’opera coinvolge anche il criminologo e questo, di per sé, ci rimanda al pensiero di Ferdinando Mantovani, il quale, scrive: “…Sarebbe superba ignoranza la pretesa del criminologo di costruire le proprie categorie trascurando la realtà delle norme giuridiche e del mondo dei valori che esse esprimono; così non è meno grave atto di presunzione ascientifica, che non fa progredire la scienza penale, l’isolamento del giurista nella torre eburnea delle forme pure. Prima di essere “forma” il diritto è “valore” e “natura”, perché valuta come criminosi fatti umani in rapporto a certi sistemi di valori e perché i fatti, in quanto tali, appartengono al mondo della natura e, nel mondo dei fatti, è legittima e necessaria anche un’indagine metagiuridica[6]”.
Pavone dunque, con la sua opera, ri-propone il problema sempre attuale della necessità di fare tentativi per attenuare, nel rispetto delle reciproche ed ineliminabili esigenze, quelle divergenze storiche che esistono tra le Scienze criminologiche e le Scienze giuridico-penali.
In questo senso, allora, egli consente al criminologo di poter ricordare ai giuristi la critica a due postulati legalisti[7]: 1) “La legge non è tutto il diritto; 2)“La legge non è tutta diritto; 2). Che cosa si vuol dire?
“La legge non è tutta diritto” in quanto, per forza di cose, tutto il diritto non entra in una sola legge e quindi è impossibile che essa lo contenga. “La legge non è tutta diritto” perché per sua natura è indeterminata (generale ed astratta) e lacunosa. Difatti, la legge, altro non è, che il risultato di una mediazione (culturale e politica), necessaria ed inevitabile, tra i membri che esercitano il potere legislativo e che l’hanno emanata. Per colmare l’indeterminatezza e la lacunosità della legge, il giudice ricorre, oltre che alla logica del diritto, anche ad una scala di valori personali, che non potendo essere di ordine logico-formali sono di natura politica; quindi il giudice nell’applicazione del diritto fa politica del diritto[8] e negare ciò, equivale a dire una sciocchezza.
Ancora, scriveva Calamandrei: “Il giudice che è chiamato ad interpretare una legge, come uomo è portato a giudicarla, secondo che la sua coscienza morale e la sua opinione politica l’approvi o la biasimi, l’applicherà con maggiore o minore convinzione; in altre parole, con maggiore o minore fedeltà. L’interpretazione delle leggi lascia al giudice un certo margine di scelta, entro questo margine chi comanda non è la legge inesorabile, ma il mutevole cuore del giudice; a meno che, diciamo, il cuore del giudice non sia turbato da esigenze estranee, nel qual caso varrà la massima napoletana, secondo cui “la legge s’applica, ma per gli amici s’interpreta[9]”.
In conclusione dunque, occorre che i magistrati conoscano perfettamente le leggi come sono scritte, ma sarebbe necessario che altrettanto conoscessero la società in cui queste leggi devono vivere. “Il tradizionale aforisma iura novit curia non ha alcun valore pratico se non si accompagna a quest’altro: mores novit curia”[10].

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