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Filosofia del coronavirus Che cosa ci può insegnare questa epidemia

di Michele Illiceto

Ci voleva il Coronavirus per svegliarci dal sonno dogmatico della nostra infallibilità, o dal delirio della nostra falsa onnipotenza e farci tornare coi piedi per terra a stretto contatto con la nostra fragilità. Pensavamo di essere invulnerabili, inattaccabili, impenetrabili, appunto “immunizzati” dai tanti virus spesso fraintesi perché identificati in malo modo o con gli stranieri o con altre forme di diversità che attentavano alla nostra sicurezza e al nostro ordine istituito.

Tutto d’un tratto ci scopriamo “esposti”, senza sapere che lo eravamo da sempre, perché, come insegna la filosofia, “esistere” significa “essere esposti”. Molti si credevano radicati e ben impiantati nelle loro certezze e nelle loro sicurezze. Eternamente fissati a questo tempo il cui destino invece è quello di “passare” e di  “finire”. Abbiamo disimparato la “provvisorietà” e con essa tutto quanto essa stessa ci può insegnare, come la sobrietà, la prudenza, il rispetto e la responsabilità, ma anche il distacco e la generosità.

Abbiamo assolutizzato tutto, specialmente le cose e i beni materiali, come anche gli onori e i riconoscimenti, le carriere, la posizione e l’immagine sociale che ciascuno a fatica si è costruito. Forse abbiamo assolutizzato anche le persone, i loro affetti e i legami, ma più di ogni cosa abbiamo assolutizzato noi stessi generando forse a volte conflitti inutili e stupidi. Abbiamo amato le persone pensando di tenerle al riparo da ogni pericolo, mai dicendo loro che non possiamo invece dargli tutto. Non abbiamo mai confessato le nostre incapacità e i nostri limiti. Abbiamo disimparato l’arte del limite, e, invece al contrario, abbiamo praticato molto la tecnica dell’illudere, pretendendo di avere o dare tutto.

Abbiamo disabituato le nuove generazioni alla fallibilità, al possibile rovesciamento degli eventi. Tutto è stato sempre calcolato e pianificato, programmato e previsto, perché l’unico obiettivo è stato sempre quello che i conti a fine giornata dovessero sempre tornare. Abbiamo inseguito una perfezione che non potevamo permetterci, vivendo spesso al di là delle nostre possibilità.

Abbiamo spesso disabituato i nostri adolescenti a porsi le grandi domande per la paura di non dover poi aiutarli a saper trovare da soli le relative risposte. Li abbiamo resi quasi anaffettivi, inducendoli spesso a giocare con il dolore altrui, a ridicolizzare chi aveva fallito, o aveva una fragilità che offendeva la loro normalità. Insomma, li abbiamo educati sempre a vincere a mai a perdere, E ora che – dalla politica alla sanità, dalla economia alla cultura, perfino dalla scienza alla tecnica – a perdere siamo noi adulti, ecco che ci ritroviamo impotenti a rispondere alle loro domande.

Abbiamo assolutizzato tutto, specialmente ciò che abbiamo accumulato e  accantonato come se dovessimo tenerlo per sempre e solo per noi. Abbiamo avuto la pretesa di pianificare il futuro, facendo calcoli sugli indici per prevedere gli andamenti dei mercati, o degli acquisti e di eventuali ricavi.

Anche la percezione del tempo è cambiata. Abbiamo pensato a guadagnare il futuro mentre ci è scappato dalle mani il presente che ora invece ci interessa molto di più, perché la paura rende breve il tempo che ci è dato. E se facciamo qualche calcolo, esso riguarda i rischi di un eventuale contagio piuttosto che quello che guadagneremo domani. Ora solo ci accorgiamo che la vita è preziosa e che vale la pena tenerla e non sprecarla in stupidi giochi.

Abbiamo, infatti, accorciato le distanze temporali: ci interessa l’adesso, e il momento, contiamo i minuti e le ore ma solo per assistere inermi al susseguirsi degli eventi, per misurare la velocità del diffondersi della malattia.

Abbiamo erroneamente pensato che la fragilità fosse una condizione solo di alcuni, di pochi, i quali tra l’altro non meritavano neanche la nostra attenzione. Non abbiamo mai avuto il tempo né l’opportunità di maturare una percezione collettiva del dolore, della malattia e della morte, ma l’abbiamo sempre lette e valutate come eventi esclusivamente individuali e personali. Tant’è che abbiamo costretto molti a morire da soli o a restare soli durante certe forme di malattia grave nel percorrere l’ultimo tratto della loro esistenza.

Questo coronavirus invece ci sta facendo capire che la fragilità è una condizione comune e che la morte, anche se un evento singolare, oltre che individuale ha anche una sua dimensione sociale e collettiva.  E se ci informiamo non è perchè ci interessi la sorte altrui, ma solo perché temiamo per noi.

Che cosa può insegnarci questa infezione? Tante cose, ma una in particolare. Questa esperienza ci sta facendo toccare con mano il fatto che, in fondo, siamo un’unica grande famiglia. Una cosa sola. Che siamo comunità e non sciame di individui isolati, ciascuno ripiegato su se stesso o appiccicato con gli occhi stralunati al proprio cellulare. Non siamo più indifferenti. Ma solo per convenienza. L’indifferenza ha ceduto il posto ala curiosità. Un’altra forma di egoismo serpeggia in queste settimane: quello di sperare che non capiti a noi o che il virus non arrivi in città. Soltanto ora molti scoprono che esiste la propria città!

Stiamo capendo che esistono anche gli altri e che io dipendo dalla loro salute, dal loro starnuto e dal loro tossire. Anche dal loro stesso respirare. Dalla stretta di mano. Questo Coronavirus ci restituisce lo spessore denso della nostra umanità. Il fatto che, anche se siamo di pelle e di nazionalità diverse, in fondo siamo tutti su una stessa barca e che quello che accade ad uno ha effetti su tutti gli altri. Più globalizzati di così!

Peccato però a non averlo pensato prima. Il paradosso infatti è proprio questo: che avevamo bisogno di provare la paura del contagio o di questa situazione di estremo pericolo per riscoprire questa dimensione antropologica fondamentale. La paura ci ha fatto scoprire che gli altri sono importanti e che la nostra via è per certi aspetti anche nelle loro mani.

Forse può servirci da lezione, per quando  – speriamo presto –  torneremo alla nostra normalità. Ma si sa, la normalità addormenta nelle coscienze la consapevolezza di avere certe dimensioni. Forse, quando tutto questo sarà finiti, torneremo alle cose di prima, come se nulla sia successo.

Allora avremo bisogno di nuove paure, di nuove minacce e di nuovi contagi per ricordarci che in fondo siamo una cosa sola. Che gli altri mi riguardano sempre. Non solo nei tempi eccezionali, ma ancor più nei tempi normali.

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