
Il freddo silenzio di gennaio
tra le pieghe del Royal Mile
mi riporta a te, ai cristalli
che custodivi negli scaffali
del volto, mentre i passanti
si nascondono in lunghe sciarpe
d’agnello e rigide mascherine
temendo il contagio.
In ogni luce cerco rifugio
per non pensare, sdoppiando
l’immagine nel riverbero dei bicchieri,
e già non ci sei più, annegata
nei giochi feroci della solitudine
ereditata con la paglia e le ossa
che il macellaio modellava in soffitta.
Pronto, adesso, a non guardare indietro
per le ore che aspettano impazienti
di morire e potersi illudere di essere state,
in questo giorno arido
che non spera nella pioggia del sole
e allo sconforto cede.
Princess Street non indossa mai
lo stesso vestito. Stasera è scarlatto
come il desiderio, tra le cui grinze
tutti ci sentiremo protetti,
prima di riprendere il viaggio
verso nuove mete.
Sono cosi lontani i miei luoghi,
la follia della gente che conosco
più di quanto avrei dovuto.
Fuori da questa finestra,
il castello di roccia ha un’eco primitiva,
come il monte Stella, fertile ombra,
con i suoi monoliti indecifrabili,
dove una volta caddi in preghiera
dopo essere fuggito dal credo dei corvi.
Sembrano felici i corvi di Edimburgo.
Non li vedi mai strapparsi piume,
foss’anche per scrivere poesie,
o spaventarsi quando su un palmo
gli si offrono briciole.
Ne vorrei uno per la mia terra.
Lo amerebbero? Goffo, nero
e di poche parole?
Certe piazze hanno
troppe croci innocenti.
Forse solo qui possono
credersi felici, lontani dalle fragranze
dei campi e dai coltelli
del sole impietosi alle carni.
I corvi, qui, possono essere corvi,
liberi e fieri dell’unico vestito
che riassume e accorpa.
Al risveglio non ho occhi né voce.
Il legno vuoto delle scale mi protegge,
mi chiama in processione
per le inquiete strade d’autunno.