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Ritorno al Sé oltre l’abisso digitale: Quando l’archetipo dell’identità si scontra con la demenza algoritmica

Nel crogiolo incandescente del XXI secolo, dove l’essere umano rischia di dissolversi in un flusso di dati e l’anima si riduce a un mero grafico di engagement, emerge una pulsione primordiale che squarcia il velo dell’iperconnessione: l’archetipo del ritorno al sé.

Non si tratta di un’evasione new age o di una moda spirituale passeggera, bensì di una rivolta silenziosa contro la distopia dell’identità liquefatta, un atto di sopravvivenza metafisica in un’epoca in cui gli algoritmi sembrano voler riscrivere le nostre autobiografie.
Dai miti orfici alla psicoanalisi junghiana, il viaggio verso il centro della coscienza ha sempre richiesto il coraggio di fissare Medusa negli occhi. Oggi, però, lo specchio si è trasformato in una prigione di filtri: Instagram ci restituisce avatar iperrealisti, LinkedIn trasforma le passioni in sterili “bullet point”, e i deepfake generano doppelgänger digitali che ci sopravvivono. In questo teatro dell’inautentico, il ritorno al sé si configura come un atto rivoluzionario: un “hacking” della mente contro i sistemi operativi del capitalismo emozionale.
Gli studi neuroscientifici rivelano che la corteccia prefrontale, sotto l’assedio dei feed infiniti, sta subendo una sorta di mutazione epigenetica: la capacità di introspezione si atrofizza, sostituita dal riflesso compulsivo dello “scroll”. Eppure, nelle pieghe di questa apocalisse cognitiva, fioriscono oasi di resistenza: ritiri di “neuro-digiuno” dove si disintossica l’attenzione, comunità che praticano la disobbedienza algoritmica cancellando i “cookie” mentali impiantati dai colossi del web.
Non è un caso se i thriller psicologici dominano le piattaforme di streaming: ogni personaggio che indaga su sé stesso diventa un detective nella propria “noir” esistenziale. Il vero mistero non è più “chi è stato?”, ma “chi sono io quando nessun database mi osserva?”. Filosofi post-digitali come Byung-Chul Han denunciano la “società della stanchezza”, ma forse siamo già entrati nell’era della cospirazione ontologica: riconquistare la propria biografia, rubata dai Big Data, richiede l’astuzia di un tattico e la pazienza di un amanuense.
Nelle metropoli ipertecnologiche, proliferano movimenti di “guerrilla” poetica: attivisti che incidono versi di Rilke sui muri degli uffici open space, sciamani urbani che guidano meditazioni anti-metaverso nelle piazze della finanza. È qui che l’archetipo si fa politico: un gesto di resistenza contro la mercificazione dell’interiorità, dove il diario personale diventa un manifesto sovversivo e il silenzio un’arma di distrazione di massa.
Persino il respiro è diventato tracciabile, convertito in oscillazioni su un fitness tracker. L’ultima frontiera del capitalismo della sorveglianza non è più monitorare i nostri movimenti, ma tradurre in equazioni i fremiti dell’anima. Eppure, proprio qui, nell’inferno della perfetta misurabilità, si accende la scintilla di una ribellione paradossale: diventare opachi agli algoritmi. Artisti “neurali” creano opere deliberatamente insensate per confondere i modelli generativi, poeti codificano versi in lingue morte per sfuggire alla cattura semantica, mentre filosofi “hacker” insegnano tecniche di “rumorizzazione esistenziale”: inserire errori volontari nel proprio “digital twin” per preservare zone d’ombra irriducibili.
L’archetipo del ritorno al sé oggi non evoca il mito di Narciso, ma quello di Prometeo: rubare il fuoco degli dei-algoritmo per illuminare le caverne della coscienza. Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ma di costringerla a servire un’antropologia diversa, dove l’umano non è ridotto a input/output, ma riconosciuto come labirinto vivente. Nelle crepe dei sistemi, fioriscono nuove mitologie: il diritto all’oblio interiore, la sovranità sulle proprie metafore, l’ascesi digitale come pratica di liberazione.
La demenza algoritmica può essere curata solo con un contro-veleno: la riscoperta del corpo come mappa non digitalizzabile. Nelle feste “underground” dove si balla al buio per disintossicarsi dagli schermi, nei laboratori di biofeedback che trasformano il battito cardiaco in sinfonie anti-AI, si annida l’ultima utopia concreta. Il sé autentico non è un dato da estrarre, ma un verbo da coniugare, un atto di disobbedienza continua alla dittatura della tracciabilità.
Quando tutti gli specchi sociali saranno infranti, resterà il brivido precario di esistere oltre ogni certificazione blockchain. Forse, nella resistenza quotidiana all’ottimizzazione, scopriremo che l’abisso digitale era solo una soglia: oltre c’è il deserto fertile dove ricominciare a scolpire, a mano, la statua mai finita dell’umano.

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