
Rubrica settimanale a cura di Marilù Murra per il Corriere di Puglia e Lucania, in collaborazione con ANIM
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Il filo che ci tiene – tra denuncia, memoria, fragilità e pace –
Ogni settimana, questa rubrica diventa uno spazio dove le parole non vengono solo lette, vengono attraversate. Sono versi, racconti, riflessioni che parlano all’anima prima ancora che alla mente. Ci ricordano che la scrittura, se autentica, non è mai un esercizio sterile, è gesto che salva, custodisce, si oppone. È cura e resistenza.
Questa settimana, il filo che unisce i testi scelti è sottile ma potentissimo. Non si vede a prima vista, ma si sente, è il filo dell’umanità viva, che si muove tra quattro poli fondamentali della nostra esperienza interiore e collettiva:
– Denunciare ciò che è inaccettabile, per non esserne complici.
– Raccontare la sofferenza per restituirle dignità e voce.
– Custodire la memoria condivisa per non smarrire le radici.
– Ritrovare pace, non come assenza di conflitto, ma come riconciliazione profonda.
Insieme, queste scritture formano un arco narrativo che parte dalla frattura e giunge alla possibilità di un nuovo respiro.
I testi integrali
Elisabetta Fioritti – Non in mio nome
E cade il cielo.
In questo autunno
rosso di sangue,
cadono le stelle,
cadono gli angeli.
Cadono dal cielo
piume di piccoli uccelli
per farne fuochi
sopra la Terra.
Nel silenzio
non parlano
i corpi straziati
Neanche il pianto
riempie l’abisso.
L’aria sale acre
del sangue di Abele,
rinnova un sacrificio
millenario.
Nell’impotenza delle vittime
Nell’indifferenza di chi uccide per procura
a nome di tutti.
Non in mio nome.
Maria Emilia Mari – A dire l’indicibile
Il candore di un camice stirato,
qual manto mariano
paravento di deferenza
al fatuo empireo
dall’umana condizione,
virus sterminatori a farvi
da barriera;
dalla vostra, fn le grida
manzoniane
che le piaghe mie putride,
le urla vieppiù febili
coperte han, sedate, spente.
Lazzaro non sono,
non solleverò pietre tombali
a dire l’indicibile…
La parabola comune
di meteore cadenti
perché caduchi siam,
v’indurrà dentro lo specchio
opaco
della vostra anima,
al di là dei rovi e dei graffi,
alla ricerca alfin del varco
dalla coscienza smarrito.
Joseph Zurlo – Il mozzicare delle estati –
Era il tardo pomeriggio di giugno, quando il paese sembrava ricominciare a respirare dopo una lunga apnea, come se avesse trattenuto il fiato per superare l’irrespirabile afa del giorno. I muri bianchi delle case e l’asfalto grigio, infuocati dal sole per tutto il giorno, restituivano nell’aria il calore assorbito.
Le case con le spalle a oriente iniziavano a ombreggiarsi. Il vento leggero salentino accarezzava, a tratti, il viso, quasi a voler regalare una tregua tra il sole cocente e gli uomini di quella terra che lo avevano subìto.
A ogni inizio d’estate, come da tradizione, si perpetuava “lu mozzicare” delle fave, una pratica antica, immutabile, che univa donne e uomini, nonne e nipoti, in un rito collettivo fatto di pazienza, costanza, chiacchiere e risate.
Fuori dall’uscio di casa, seduta sulla sua sedia, mia nonna impugnava il sasso grigio, levigato dal mare, con un gesto fermo e delicato. Scelto con cura da lei, tra mille altri sull’arenile di Torre San Gennaro, serviva per rompere e rimuovere la buccia secca, a striature gialle e marroni, delle fave. Queste venivano esposte al sole e fatte essiccare per diverse settimane, su lenzuola stese sulla calotta esterna delle volte a stella dei solai delle case.
Con la pietra, resa lucida dall’usura degli anni, schiacciava le fave battendole con delicatezza e maestria sulla “chianca”, una lastra di pietra bianca che, a causa dei colpi ricevuti nel corso dei decenni, appariva levigata, consumata e scavata al centro, testimone silenziosa di tante estati.
Adagiava la “chianca” sulle cosce, coperte da uno strofinaccio spiegato sopra al grembiule. Accanto, un sacchetto di cotone raccoglieva le fave “mozzicate” che avrebbero arricchito la dispensa invernale di legumi.
Le altre donne, vicine di casa, con i grembiuli legati stretti in vita, si sistemavano ai loro posti di sempre, una accanto all’altra, a formare un semicerchio. Alcune sedevano su sedie impagliate, altre su piccoli ciocchi di legno d’ulivo che fungevano da sgabelli improvvisati.
La scena era familiare, vissuta e rivissuta da generazioni: la “cummare” che cuciva, le cui dita abili si muovevano tra ago e tessuto, mentre borbottava perché non riusciva più a infilare il filo nella cruna come un tempo. L’altra “cummare” guardava, ora i visi assorti in altre faccende, ora la linea nera delle formiche sul margine del marciapiede. Intanto raccontava una storia, una di quelle che tutti avevano già sentito mille volte, ma che facevano sempre ridere o riflettere. “Lu cumpare”, appena rientrato dai campi, con gesti lenti e decisi si toglieva di dosso la polvere di zolfo, sollevando una nuvola giallognola che si disperdeva nell’aria.
L’odore acre dello zolfo si mescolava a quello del calore che saliva dalla strada, e alla polvere sottile delle fave secche. Il suono del sasso che batteva contro la “chianca” era ritmico — tac tac tac — costante, interrotto solo dalle risate delle donne e dalle urla gioiose dei bambini che correvano per la strada.
In lontananza si udiva la voce di una nonna che rimproverava il nipote troppo irrequieto. Ma quel tono burbero, anziché spaventare, suscitava nuove risatine tra le “cummari”, che continuavano, a testa bassa, a lavorare e raccontare, con una complicità antica.
Sempre in lontananza si udiva il campanello di una vecchia bicicletta: era il segnale che il solito vecchietto, puntuale come ogni giorno, passava a quell’ora con la sua coppola stinta e i pantaloni arrotolati a mezza gamba per non farli incastrare nella catena.
Salutava con un cenno della mano e con l’augurio della “bonaespra”, mentre pedalava piano lungo la strada, quasi volesse fermarsi anche lui a godersi quell’atmosfera di quiete e semplicità.
Ma proseguiva dritto, verso il bar dello sport, al crocevia più importante del paese, tra via Cellino e via Grassi, ritrovo abituale di compagni di briscola e appassionati di totocalcio.
Quando il sole iniziava a calare, tingendo di arancione il cielo sopra le case, nessuno sembrava avere fretta di andarsene. Le fave venivano battute, una dopo l’altra e la “chianca” raccoglieva i segreti, e le risate, i racconti, gli odori di quei pomeriggi d’estate che si mescolavano nell’aria, creando un’armonia che solo la vita di un piccolo paese poteva regalare.
Era un rituale antico, quello del “mozzicare”, e in quel gesto c’era più di una semplice abitudine.
C’era la memoria di chi era venuto prima, c’era il calore della comunità, e c’era la promessa che, l’estate successiva, si sarebbero ritrovati ancora lì, a battere le fave sotto lo stesso sole.

Paola Maria Bevilacqua – Pace
Nel Monferrato mi fermo sul sagrato della Cattedrale di San Germano
e scopro un’oasi di pace sotto all’ombra dei profumati tigli
Frinire di cicale che pare di essere in Grecia
Il tempo si è fermato
Mi ha preso per mano e mi ha portata con lui
in una dimensione spazio tempo senza tempo
dove galleggio serena
Flutuo nel silenzio della pace
e ritorno alle origini
cullata dal suono delle campane
che battono i rintocchi di una giornata qualunque
Conclusione
Quattro testi, quattro modi di dire la verità.
Non la verità assoluta, ma quella personale, poetica, viva.
E insieme disegnano una mappa, dalla ribellione al dolore, dalla memoria alla pace.
In questo tempo così denso di stimoli e così povero di ascolto, questi autori ci ricordano che le parole sono ponti.
Ponti tra chi soffre e chi comprende, tra chi ricorda e chi riceve, tra chi chiede ascolto e chi sa ancora sentire.
E se questo filo, settimana dopo settimana, continua a tessere nuove connessioni, è perché ogni voce letta e accolta lascia un segno.
Un segno che resiste. Un segno che consola. Un segno che resta.