Principale Arte, Cultura & Società Dove si è rotto l’uomo

Dove si è rotto l’uomo

Sicurezza sul lavoro

Guarda là! C’è un nome inciso sul banco tra lamiere, una voce schiacciata

nel metallo corroso che odora di sconfitta.
Là, tra carcasse d’acciaio e vetri rotti,
un nome giace inciso nel silenzio,
voce schiacciata da un cofano cieco,
occhio meccanico privo di pietà.

Vito, sei diventato ruggine che canta nei cancelli,
una vena spezzata sotto la pelle delle macchine,
una scintilla spenta prima dell’alba.
Ogni giorno entravi nel ventre del lavoro,
cuore cucito in una tuta stanca di polvere e silenzi,
tempo appeso al gancio del cartellino.

La sera uscivi a pezzi,
come un sopravvissuto che dimentica la strada.
Poi il tempo ha chiuso la porta
senza nemmeno bussare.

Un’auto impilata ti ha scelto,
non per errore,
ma per la colpa di un sistema senza volto.
Il tuo calendario si è rotto sul cemento,
tra paghe interrotte e sogni avvitati al metallo.

Là, dove si aggiusta il ferro,
si è rotto l’uomo.
E la luna, storta come una falce senza padrone,
ha raccolto il tuo nome e l’ha portato via.

Ora noi restiamo con le mani vuote,
a cercarti tra macerie e diritto negato.
Il tuo nome è un graffio sul tempo,
una preghiera che nessuno ha imparato.

Yuleisy Cruz Lezcano

Ho scritto questa poesia per dare voce a chi non può più parlare, per restituire umanità a un uomo che non dovrebbe essere ricordato solo come “un altro numero” nella tragica contabilità delle morti sul lavoro. La poesia nasce dalla notizia della morte di Vito Penna, un operaio di cinquantacinque anni schiacciato da un’auto in un’autodemolizione a Massafra, in provincia di Taranto. Di fronte a questa ennesima perdita, ho sentito il bisogno come strumento il linguaggio poetico. Perché la poesia può – e deve – essere anche strumento civile, memoria collettiva, denuncia contro l’indifferenza.

Vito, come tanti altri, entrava ogni giorno nel ventre della fatica con il cuore cucito in una tuta, e ne usciva a pezzi. La sua morte è simbolo di una tragedia più grande: quella di un sistema che troppo spesso continua a considerare il lavoro manuale come sacrificabile, e i corpi degli operai come ingranaggi sostituibili. Con questa poesia ho voluto raccontare il suo nome inciso nella ruggine, la sua presenza viva nel silenzio delle officine, la solitudine di chi lavora tra lamiere e rischio, la dignità che resta anche quando tutto si spezza. Vito diventa così emblema di tanti, una scintilla spenta non per errore, ma per responsabilità collettive che raramente trovano volto o giustizia.

Il significato sociale di questo testo sta nell’urgenza di ricordare, di portare al centro del discorso pubblico le condizioni spesso invisibili di chi lavora nel silenzio e nella polvere. Le parole non riportano indietro la vita, ma possono incidere la memoria, trasformarla in un grido, in una preghiera civile. E in un dovere. Perché là, dove si rompe il ferro, non si deve più rompere l’uomo.

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