
Di Yuleisy Cruz Lezcano
C’è un filo teso che unisce due generazioni apparentemente inconciliabili: quella cresciuta tra i cortili e le comitive degli anni ’70 e ’80 e quella attuale, frammentata, iperconnessa eppure irrimediabilmente sola. Quel filo, oggi, vibra di malinconia e urgenza, come un citofono che squilla nel silenzio di una casa vuota. È il desiderio di tornare a una socialità perduta, un bisogno primario che sopravvive nonostante l’individualismo imperante. Chi è nato e cresciuto negli anni del Commodore 64 sa bene che il fascino del videogioco non reggeva mai il confronto con un “scendi?” gridato dal cortile. La comitiva non era solo un gruppo di amici: era un ecosistema affettivo, un rito di passaggio, una palestra emotiva. Era il luogo in cui imparavamo a conoscerci attraverso gli altri. E in quel confronto – ruvido, a volte spietato, ma autentico – ci costruivamo, ci rafforzavamo. Eravamo fragili, ma insieme. E la fragilità in compagnia, si sa, fa meno paura.
Oggi, invece, osserviamo con inquietudine un paesaggio antropologico ben diverso. Le nuove generazioni – cresciute in ambienti iperprotetti, iperanalizzati, digitalizzati fino alla radice – vivono spesso in isolamento, connessi a tutto ma scollegati dal reale. Fenomeni come hikikomori, incel, misoginia digitale, ma anche la diffusa apatia emotiva, la paura del contatto, la mancanza di empatia e il ritiro sociale sono solo i sintomi più visibili di una crisi profonda. Una crisi del legame, dell’appartenenza, del riconoscimento reciproco.
Il cortile si è chiuso. Il muretto è sparito. Al loro posto, una stanza, una webcam, un nickname.
Ma com’è successo tutto questo?
Una parte della risposta sta nella trasformazione del nostro modello di società: il passaggio dal collettivo all’individuale è stato rapido, profondo, apparentemente irreversibile. Dopo l’università, la vita adulta ha fatto il resto: i trasferimenti, i figli, i matrimoni, la rincorsa alla carriera, la narrazione tossica del “ce la devi fare da solo”. E poi la pandemia, che ha sigillato una generazione già fragile in bolle individuali di paura e distanza. Così il rifugio è diventato solitudine. E la solitudine, in molti casi, è diventata gabbia. Oggi si celebra l’introverso, il misantropo, il narcisista funzionale. L’estroverso viene psichiatrizzato, contenuto, etichettato. La spontaneità è vista come minaccia, la confidenza come invasione, l’aggregazione come sospetto. In nome della “sicurezza”, ci siamo costruiti delle celle emotive. E ci siamo chiusi dentro.
Persino le relazioni familiari, quelle più intime, hanno perso i loro confini. In nome dell’amore – o di ciò che chiamiamo tale – stiamo trasformando i figli in estensioni emotive di noi stessi. Un amore simbiotico, invadente, ambiguo. Dove la mancanza di rispetto per l’identità e il corpo dell’altro è mascherata da affetto, e dove la sovraesposizione affettiva rischia di sfociare in forme sottili ma pericolose di controllo e possesso. Tutto questo avviene mentre continuiamo a raccontarci di vivere in un’epoca libera. Ma non siamo affatto liberi. Siamo imbrigliati in una rete sottile e invisibile fatta di consumismo, iper-tecnologia, burocrazie della salute mentale, omologazione culturale. Un regime senza divisa, senza bandiere, ma altrettanto autoritario. Un sistema che, come scriveva Marcuse, ci offre “piccole libertà” per mascherare una servitù sistemica più grande.
Eppure qualcosa, forse, si sta muovendo.
Forse quella nostalgia che oggi si respira – quel desiderio diffuso di “ritornare alla comitiva” – è un primo segnale di risveglio. Forse stiamo cominciando a capire che nessuna SPA, nessun viaggio in solitaria, nessun massaggio può competere con una serata di risate vere, tra persone che si vogliono bene. Forse abbiamo capito che la socialità – quella genuina, non mediata – è ancora la cura migliore contro la tristezza, contro l’alienazione, contro la paura. E allora riapriamole, quelle porte. Risentiamo quel “scendi?” come un invito alla vita. Ricominciamo da lì. Dalla fragilità condivisa. Dall’ascolto. Dall’empatia. Dall’educazione che nasce dall’esempio, non dal controllo. Dall’adulto che si ricorda cosa provava da bambino, e che non ha paura di tornare a guardarsi con quegli occhi.
Ricominciamo a costruire comunità. Non comitive nostalgiche, ma nuove forme di vicinanza. Intergenerazionali, inclusive, affettive. Dove la libertà sia un fatto concreto, e non uno slogan pubblicitario. Dove la sicurezza non sia sinonimo di sorveglianza. Dove la tecnologia sia al servizio dell’incontro, non del distacco. Perché non tutti saremo genitori, ma tutti siamo stati figli. E tutti, in fondo, sappiamo cosa significa sentirsi soli.
Allora forse il vero atto rivoluzionario, oggi, è proprio questo: ricominciare a suonare i citofoni.
foto Psicologia Contemporanea