
di GIUSEPPE GENTILE (UNISA)
Se rivado con la memoria – erano gli anni del mio ginnasio – ad alcuni capolavori della letteratura che turbarono la mia mente di giovane inesperto e curioso della vita e del mondo, s’accampano con forza alcune terribili figure paterne: Agamennone e il sacrificio di sua figlia Ifigenia, perché una flotta potesse partire per una guerra sanguinosa; Laio che, atterrito dalla profezia che suo figlio l’avrebbe ucciso, gli fora impietosamente i piedi – perciò Edipo si chiama così – e lo affida a un pastore perché lo sopprima sui monti dove porta a pascolare le sue pecore; e questo pastore, più pietoso del padre, lo affida ad un altro pastore perché lo salvi e lo conduca in un’altra reggia presso quelli che Edipo poi crederà essere i suoi genitori e da essi viene amorosamente allevato ed educato. E ancora, unito al tribalismo feroce della tragedia greca, uno dei personaggi nel qua le, proprio per la mia giovane età, ingenuamente mi rispecchiavo, il principe danese, Amleto, il cui padre, in forma di fantasma – e in Shakespeare il soprannaturale è sempre rappresentazione dell’inconscio – gli sconvolge la spensierata vita fino a quel momento condotta, per legarlo all’obbedienza del compimento di una vendetta familiare.
Su questo ultimo libro di Menotti Lerro, s’accampa, in copertina, la riproduzione di un quadro poco noto di un altrettanto poco noto pittore: “Benedizione di Giacobbe” di Domenico Pedrini, bolognese del XVIII sec. Il titolo del quadro è meno ambiguo e meno ricco di in quietanti sensi. Pur nella non eccelsa qualità pittorica, l’autore lascia trasparire ben altro rispetto ad una rassicurante benedizione paterna nei riguardi del figlio. I loro gesti sono ambigui, come ambigui sempre sono i legami forti della nostra esistenza: il braccio del vecchio s’appoggia dolcemente sul braccio di Giuseppe e, al contempo, lo trattiene perché non vada via, e il braccio del fanciullo, così come è poggiato sul ginocchio del padre, al tempo stesso imprime una forza nel tentativo di liberarsi dalla stretta del genitore. Indicando non uno dei possibili percorsi ma quello che a me sembra percorso fondamentale di queste poesie – vorrei dire poe ma, per la forte unitarietà del testo – mi rendo conto che corro il pericolo di uniformare troppo un percorso poetico che coniuga altri temi e motivi di non secondaria importanza. Volendoli appena enumerare, si ripresentano, in questi versi di Menotti, temi e motivi da lui precedentemente coniugati, tanto da poter già fornire al lettore critico un universo di “metafore ossessive” e un “mito personale” che permettano una lettura non ingenua della sua poetica. E questi temi e motivi, l’andare e tornare dal paese nativo, come per un impossibile anche se desiderato distacco, la conflittuale educazione sentimentale che investe gli affetti familiari e gli amori dall’adolescenza alla prima maturità, la condizione di straniero in qualsiasi luogo della terra abbia già abitato unita a una
dolcezza e pazienza metamorfica per cercare di adattarsi ai diversi luoghi, questi temi e motivi, dicevo, ritornano ancora qui, anche se più asciutti, più de purati rispetto alle precedenti prove. E questi temi e motivi non si può ignorarli se si vuole cercare di essere equilibrati, nel mestiere del critico, tra proiezione personale sul testo e rispettosa capacità di ascolto della voce del poeta. Tuttavia a me pare innegabile che proprio questi temi e moti vi precedentemente enumerati attendevano di confluire in un sentimento e in un conflitto che li annodasse e li stringesse tutti in una nuova unità. Giunge sempre, presto o tardi, per un poeta il tempo di farsi poeta dell’esperienza, cercando di allontanarsi definitivamente dalle seduzioni autoreferenziali del linguaggio o, peggio, da un eccesso di patetismo che risponde soltanto al bisogno personale di trovare una sorta di equilibrio interiore.
Questo poeta più maturo comincia a pensare agli altri, a voler donare agli altri la propria esperienza, non più però appiattita su un ipertrofico io.
Nel nome del Padre recita il titolo della raccolta, non temendo Menotti di ripetere titolo già ampiamente usato, anzi, da quest’uso egli acquista cosciente e rassicurante consapevolezza di far parte di un più ampio discorso, starei per dire solidarietà, che è propria di ogni essere umano: quel complesso nodo che unisce il figlio al padre. Perché c’è un momento nella vita di ogni essere umano in cui si sente l’esigenza di voler scrivere, anche se solo nel tribunale della propria coscienza, quella fatidica lettera al padre che così dolorosamente vergò Franz Kafka. Si avverte questa esigenza perché dentro di noi sentiamo, dolorosamente, che è giunto il momento che quel braccio lasci la presa e che quella mano non continui invano a premere per separarsi.
Per dire tutto questo, Menotti, con rinnovata coscienza umana e poetica, con timore e tremore, racconta in versi la sua storia come contenuta e compresa in una storia che lo trascende. Perciò, in un incontro fra i tanti tra lui e me, alla mia impudica richiesta di scrivere un decalogo di dieci parole cardini, fondamenta del suo poetare, tracciò le parole di Padre, Amore, Solitudine, Mito, Religione, Lotta, Corpo, Oggetti, Essenza, Ombra. Tra queste dieci, egli stesso ne scelse due Mito e Religione – e in quella scelta mi fu chiaro che Nel nome del Padre non è libro soltanto, sia pur nobilmente, autobiografico ma libro testimoniale di un’appartenenza a una più ampia koiné che è quella che fonda la nostra identità mediterraneo-occidentale, mito greco e religione ebraico-cattolica.
Pur essendo un libro che cerca di comprendere, testimoniandolo, il complesso legame che esiste tra padre e figlio, paradossalmente, Menotti sceglie un Mito della modernità che con tale tema quasi nulla ha a che vedere: un uomo che non è né marito né padre, creando così una paternità che non è tale perché biologica quanto spirituale, come a voler dire che su questa seconda non può la prima accampare diritti assoluti di priorità e di importanza. Così qui la coppia padre/figlio viene assorbita e idealizzata nella coppia Chisciotte/Sancho.
Il testo liminale, la poesia che apre e suggella il poema è testo primario per la sua stratificazione di segni. Esso è costruito, grazie ad apporti plurimi, con frammenti della poesia neo greca e del romanzo cervantino, senza però – ed è la sincerità dell’esperienza del poeta che lo garantisce – che questa poesia inaugurale finga di essere il frutto di un abile, colto collage di riferimenti citazionali; piuttosto è commovente confessione del proprio vissuto, pudicamente rivestito dei panni dell’altrui poesia, dell’altrui narrazione.
Menotti non teme di usare la trama di storie bibliche o evangeliche, di racconti mitici e arcaici, di raccontare l’ancora bruciante ferita di una vicenda familiare sotto le spoglie parodiche e tragiche dei due grandi personaggi cervantini. È puro e coraggioso in questo libro e si sente che doveva scriverlo per trovare finalmente la propria voce di poeta.
Perché questo libro è anche la testimonianza della propria formazione di uomo e di scrittore – e la si finisca una buona volta di intendere queste due entità come scisse, perché la letteratura non è la vita; è vero che non è la vita, ma è dentro la vita e di essa fa parte e per alcuni – coloro che la letteratura la scrivono e coloro che la letteratura la leggono – è parte imprescindibile e fondamentale alla propria sopravvivenza.
Torno da dove ero partito: dal quadro che, nella sua immediata ingenuità, è stata una delle chiavi per cercare di entrare in questo libro segreto di Menotti. Dietro le due figure protagoniste, quasi immersa nell’ombra, si intravede una figura femminile, ammantata come una monaca o una umile donna del secolo passato. Solo grazie alla figura femminile, ogni figlio lo sa, è possibile il riscatto del figlio da ciò che al padre deve, prodigo o meno che sia tale figlio. Ed è la pietas della donna madre che è in grado di ridonare al figlio maschio la libertà compromessa dai lacci troppo intricati che nell’infanzia e nell’adolescenza si sono stretti tra padre e figlio. Tale figura appare, sin da quel testo inaugurale di cui si è detto sopra, riapparendo poi più volte nelle varie stazioni che scandiscono questa via crucis familiare. Ed è ancora una figura femminile, in quel finale “diario di un amore” che suggella Nel nome del padre. Forse in maniera troppo immediata e non ancora pienamente elaborata, pur contando poesie di per sé bellissime, questo “diario d’amore” vuole essere un discorso salvifico, per il poeta come per il lettore; ma, questo è un altro discorso.
Giuseppe Gentile (Università degli Studi di Salerno)