Principale Arte, Cultura & Società Carla Perugini: Prefazione a “Entropia del cuore” di Menotti Lerro, 2015

Carla Perugini: Prefazione a “Entropia del cuore” di Menotti Lerro, 2015

Il testo letterario è un’entità indipendente che basta a sé stessa, eppure, fra il momento della scrittura e quello in cui lo scrittore lo licenzia per la sua diffusione, si produce un vuoto che sarà colmato soltanto con la sua ricezione. Per quanto la stesura presupponga un lettore implicito, il lettore reale, lungi dall’identificarsi con un destinatario universale, porterà la propria modalità di lettura e d’interpretazione all’opera, conferendole un senso nuovo, finanche diverso o divergente rispetto a quello dell’emissore: anche leggere è creare. “Il testo paziente”, ormai slegato dal contesto in cui è nato e dall’istanza enunciatrice, ne viene tuttavia limitato e orientato.

Il lettore, oltre che cercare nella poesia un senso e un significato, tende, pur inconsapevolmente, a identificarla con quell’inconoscibile, quell’alone di mistero che la tradizione le assegna. E noi, pur lasciando alla nuova raccolta di versi di Menotti Lerro la sua legittima porzione d’ignoto, dobbiamo ammettere che vi ritroviamo un tono, delle atmosfere, un quid che rende riconoscibile lo stile del poeta che abbiamo già letto e apprezzato nella sua precedente produzione.
Ecco i temi dell’infanzia con le genitoriali figure chiave, certe ambientazioni asfittiche (la soffitta, la camera da letto) ovvero aperte e smisurate, fra minacce naturali o conforto di paesaggi familiari, l’incombere di oggetti simbolo (lo specchio, la polvere, i coltelli) o di leit motive come lo sguardo, il tempo o la morte: tutta questa “enciclopedia” che fornisce materia poetica ai libri di Lerro ce li rende noti e identificabili.
Così come riconosciamo il complesso lavoro di lima, di rielaborazione concettuale e lessicale delle sue poesie, che cercano, e trovano, un difficile equilibrio fra l’espansione reclamata dall’effusione del cuore e dalla mozione degli affetti e la disciplina imposta dalla concisione del pensiero e dalla meditata riflessione. Pur pescando in un vocabolario ricercato o desueto che, insieme alla sintassi, si spinge a volte fino all’azzardo, rispetto a certe elusività del passato l’autore sembra qui privilegiare una fluida narratività, il cui nucleo incandescente è rintracciabile nella perdita di un amore e nel sorgere di un nuovo rapporto.
Corpo e anima, principio e fine, promesse e infedeltà, rispetto e tradimento, tutto l’eterno repertorio di ogni storia d’amore che in ciascuna sua reincarnazione si sente unico e primigenio, rimanda a una condizione di esistenziale sconforto, compensato da promesse e me morie rinnovate di felicità. A rimorsi e rimpianti laicamente cantati fanno da contrappunto frequenti incidenze di un lessico para-religioso (molta “colpa” e “perdono” e “peccato” e “resurrezioni” in questi versi…), in un universo personale cangiante e contraddittorio che fa pensare davvero, per riprendere uno scrittore contemporaneo, che dall’io all’io la distanza è immensa. E che, potremmo aggiungere, la distanza equivale al percorso dalla vita alla narrazione: ora che l’io ha alle spalle e davanti a sé più di un’esperienza d’amore, si riscopre a narrarle, e a narrarle a un tu che le riconosce perché quell’esperienza è troppo umana, troppo universale. Un poeta tedesco ci soccorre, Hölderlin: «Ma là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva». E così, nel ciclo perpetuo della vita, con le sue perdite e i suoi guadagni, il poeta sembra chiudere il cerchio penitenziale del disincanto e della assegnazione con una spinta insopprimibile verso un Eros che sconfigga Thanatos, forse l’unico che puo’ farlo in quel folle disegno divino che sembra essere l’universo.
E se all’inizio la presenza significativa della quête degli sposi del Cantico dei Cantici pare capovolgersi in una ricerca senza speranza («Ora nei miei sogni lei è un’ombra,/nera come le tende di Chedar»), l’ultima composizione, nel suo indulgere al gioco retorico dell’acrostico, s’apre a un futuro ancora a due: «Andare uniti verso il tramonto./Maturare sullo stesso ramo./Oltre il confine, senza rimpianto./Reincarnarsi in uno stesso corpo./Ereditare lo stesso ricordo».

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