Ci sono poeti che arrivano particolarmente al mio animo. Uno di questi è certamente Enrico Testa. In lui colgo ciò che coglievo in altri miei grandi Maestri come Alessandro Serpieri e Remo Bodei, con la differenza che Testa è anche un raffinato e solido poeta: di quelli veri, autentici, che quasi litigano con le parole perché le stesse stanno spesso strette al proprio pensiero, alla propria visione. In Testa la poesia è “gioco”, è comunicazione vera in un mondo che non riesce a comunicare; è luce che avanza nel buio della sera e che poi si distorce in uno specchio.
Tra le tante poesie che questa corposa raccolta propone, segnalo la seguente che nello specifico, tra l’altro, “gioca” anche con il poeta provenzale Bernart de Ventadorn…
“Pietà è perduta: il suo cuore non si smuove.
Corpo morto m’ha fatto e da morto le rispondo:
me ne vado non so dove,
prigioniero, in esilio.
Lascio, umilio e abbandono il mio canto,
e fuggo da gioia e amore.
E che il canto allora sia dell’allodola soltanto:
a lei la libertà, alle sue ali,
al suo volo in verticale
e al suo dialogo coi pettirossi
in questi viali di edere, cipressi e bossi.”
Il viaggio dell’io poetante di questo componimento non ha soluzione prevedibile, forse perché il viaggio stesso come concetto non può che sciogliere le sue “riserve” allorquando lo si compie, direbbe Antonio Machado.
A generare è stato un “corpo morto” (che va da figure genitoriali, a Dio, alla Natura) ed ecco, dunque, un’altra esanime figura che risponde dalla sua prigione straniera, dal suo “esilio”, senza riuscirsi ad abbandonare all’amore che ai vivi, forse, appartiene.
Viva è “l’allodola” negli occhi del viaggiatore che di vita non riluce, “libera” di innalzarsi verso le cime più celesti, di “dialogare” con l’altro (“i pettirossi”) nei viali “di edere, cipressi e bossi”.
