Principale Cultura & Società Fast fashion?  No, grazie

Fast fashion?  No, grazie

di Maria Pia Latorre

Partendo dall’inchiesta del programma Rai3 “Newsroom”, ideato e diretto da  Monica Maggioni, rivolgo qui un accorato appello ai lettori a stare in guardia dalla fast fashion (la moda veloce) che oggi imperversa, e dalla ultra fast fashion (la moda velocissima).

Quante magliette abiti pantaloni a bassissimo costo ci invitano ad acquisti facili?

Ma “dietro ogni maglietta venduta a pochi euro, non c’è solo inquinamento, c’è anche lo sfruttamento di manodopera a basso costo e un enorme volume di affari sul quale ha messo le mani anche la criminalità organizzata”, ci avverte la giornalista.

Leggiamo pochi dati per aprire gli occhi su questo nuovo cancro che ci affligge e che radica nel consumismo, a sua volta diretta conseguenza della sovra-produzione industriale.

Tutto nasce da un’industria tessile che non contempla nei propri programmi la possibilità di abbassare l’interruttore e fermare le macchine. Per un po’, per smaltire i miliardi di tessuti e abiti in sovrappiù.

Tre nazioni sono divenute discariche mondiali: Ghana, Cile e Bangladesh, tre megadiscariche che ripuliscono il consumismo del pianeta. In Ghana, oggi, chilometri di spiagge sono invase da montagne di abiti e stracci. Nel deserto cileno di Atacama, reso famoso da Luis Sepulveda, un satellite è riuscito a fotografare un’intera montagna di stracci (dati poi alle fiamme). Ancora è aperta la ferita per il crollo, nell’aprile del 2013, di Rana Plaza, a Dacca, in Bangladesh, con 1135 operai morti e 2438 feriti, tragedia che fece emergere condizioni lavorative disumane.

Tre i produttori mondiali di fast fashion: Cina, USA e Regno Unito, che si avvalgono di un sistema di vendita anche on line, con lobby che sono supportate dal sistema dei social (Tik Tok in testa) e degli influencer.

L’invenduto viene imballato e intraprende interminabili viaggi intorno al mondo con diverse tappe e spropositato consumo di carburante.

In Italia, dai cassonetti per la raccolta degli abiti, i rifiuti vengono venduti e raccolti nel distretto di Prato. La filiera continua all’estero, nei paesi del terzo e quarto mondo, dove le balle di abiti vengono esportate, vendute e immesse in mercati locali. Il tutto, il più delle volte, sotto il controllo della camorra. Ciò che resta invenduto viene gettato via senza una politica di smaltimento con gravi danni d’inquinamento.

La qualità dei tessuti della fast fashion è spesso scadentissima. Diffidate dalle fibre di poliestere (fibra presente sopratutto nel pile, un tessuto a maglia morbida creato nel 1979 negli Stati Uniti). Il pile, durante i lavaggi in lavatrice, rilascia micro-plastiche citotossiche che entrano nel ciclo alimentare con lo sversamento delle acque di lavaggio nei mari. Così, dopo aver fatto la lavatrice, a pranzo rischiamo di mangiare la nostra stessa felpa.

In sintesi, il sistema fast fashion non rispetta né i principi della sostenibilità ambientale né quelli della sostenibilità umana. Fare acquisti è un’azione politica. Ognuno di noi può fare la differenza.

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