Intensa, drammaticamente attuale l’Eneide. Sogno italico degli dei, del regista Antonio Minelli
Una rappresentazione teatrale che è stata narrazione, storia dell’uomo e delle sue fragilità, ma soprattutto, come dichiarato dallo stesso regista, un monito, quasi un grido di dolore contro la piaga della guerra. L’Eneide di Minelli, ieri sera, per le vie e i vicoli del Borgo antico di Taranto, pur attingendo al capolavoro virgiliano, ha messo in rilievo l’universalità e la sovratemporalità dei temi trattati dai protagonisti delle varie scene, fondendo il patrimonio classico con la contemporaneità.
E il mondo dell’epica, un tempo destinato agli àristoi, si è fatto vita, parola, linguaggio dell’uomo comune, ma anche di un’umanità, spesso fin troppo passiva, flagellata dalle guerre. Al di là del tempo e dello spazio.
Il ruolo e il significato dell’epica nella contemporaneità
L’approccio al patrimonio letterario classico, specie a quello epico, viene visto in linea generale come avulso dalla realtà attuale, perché espressione di alterità sociali, troppo diverse dal nostro vivere. E, conseguentemente, sia in ambito teatrale, che letterario vi è una certa diffidenza nel rappresentare personaggi intrisi di una storicità così remota, inattuale.
Ma, se anche l’Epica ( soprattutto quella omerica) è altamente celebrativa dei valori e dell’eroismo di determinati uomini, in realtà ne tratteggia le fragilità, le paure e quei demoni che oggi chiamiamo passioni. Ed è proprio Virgilio che umanizza i suoi protagonisti, pur piegandosi all’intento propagandistico di Ottaviano Augusto.
L’Eneide virgiliana, infatti, offre spunti e riflessioni che travalicano i limiti della temporalità, prestandosi anche a quella teatralità che sarebbe impensabile per Omero. Per Virgilio l’eroe è intriso di pìetas. Di quel sentimento che lo porta ad odiare la guerra e che invoca pace.
Enea, protagonista e vittima del suo destino, costretto a combattere, ha pietà per i suoi nemici e, costretto a fuggire dalla sua Troia, è l’esule, il fuggiasco che cerca sul suolo italico una nuova vita. E’ l’esule che fugge dalla guerra e migra per altri lidi, dove dovrà combattere.
L’Eneide di Minelli
Alla luce di queste premesse appare evidente l’arduo lavoro compiuto dal regista Antonio Minelli nella rappresentazione teatrale dell’opera virgiliana, sia sotto il profilo della comprensione del testo, che sotto il profilo della rappresentazione scenica.
Minelli ha colto appieno lo spessore dei singoli personaggi riuscendo a rappresentarli in tutta la loro drammaticità. Ma ha anche saputo coinvolgere il pubblico in un percorso che è divenuto quasi introspettivo, come di fronte ad Amata, personaggio tragico del capolavoro virgiliano, madre di Lavinia, poi data in sposa ad Enea dal marito, il re Latino.
Un personaggio fortemente caratterizzato ieri sera da una straordinaria Paola Simon che ci ha coinvolti nel turbine delle laceranti passioni di una maternità osteggiata dai giochi di potere.
Ma anche la Sibilla, resa magistralmente da Grazia Greco, ha dominato la scena con i suoi moniti ambigui, densi di verità.
E, se il mondo cupo dell’incertezza e dell’ignoto, ha trovato una sua espressione tangibile negli aruspici e nelle Furie, l’uomo, lo spettatore, precipitato nella certezza apparente degli inferi, ha visualizzato tutta l’illogicità delle guerre.
Un viaggio dunque attraverso i vicoli, gli anfratti e gli spazi suggestivi del Borgo antico di Taranto che, grazie ad Antonio Minelli ha fuso passato e presente , trasponendo la narrazione, il canto epico nella vita, in una quotidianità cruda, ma attuale.
Ed è stato teatro, quello vero, grazie soprattutto alla bravura degli attori. Tutti incredibilmente veri, che ci hanno fatto vivere le nostre paure, trasportandoci in quel processo catartico che è poi alla base del teatro.
Ieri sera, l’Eneide di Minelli ha indotto gli spettatori a osservare se stessi e questa umanità in uno specchio forse fin troppo scomodo, ma reale, attuale.
E la Storia, ancora una volta ha vinto il tempo, consegnandoci un copione già scritto e che dovremmo riscrivere non più col sangue, ma con la pace.
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