Giovanni Pascoli scrive un libro sulla Divina Commedia di Dante, è la chiama “Mirabile Visione”.
E già! Perché il nostro vate nazionale ha scritto proprio una visione che dal 1300 è patrimonio dell’umanità.
E’ davvero straordinario trovare questo libro, appena pubblicato ieri nel sito liber liber, informatizzato e quindi disponibile alla lettura.
Leggere la prosa pascoliana ci fa pensare alla scuola, alle poesie tristi di questo poeta che fu definito il maggiore rappresentante del filone decadente italiano.
Quel filone che si contrapponeva al positivismo rampante di fine ottocento e metà novecento. Io, nel 1976, realizzai l’ultimo spettacolo teatrale della mia compagnia amatoriale “Teatro dell’attesa”, il testo era Escurial di Michel de Ghelderode (1898 -1962), un testo fiammingo decadente di questo belga naturalizzato.
Per inquadrare anche Pascoli, immaginate la corte di un regno avvolto nel lutto; è morta la regina, e si ascoltano ululati di cani e rintocchi di campane, mentre il re si dispera poco per aver perso una donna che non amava, e il buffone di corte, che sbeffeggiando il padrone, canta le lodi della regina che amava. Un bel gioco delle parti.
Ma lasciamo la digressione sul decadentismo e parliamo del libro di oggi
E’ un libro da salvare sul pc e leggere con calma, sono 534 pagine: della Divina parliamo!
Piuttosto lasciamoci prendere dal tema e da come viene affrontato nello stile pascoliano. Ecco per esempio una sua digressione sui simboli presenti nel testo dantesco.
Insomma un letterato del 900 doveva pur trovare delle discordanze sulla cultura religiosa. E salta all’occhio il simbolismo dantesco che si basa su segni pagani, del resto il fiorentino parte da Virgilio suo mentore che era pagano.
Ecco cosa scrive Pascoli:
“I regni dell’espiazione e della purgazione sono quali li descrive nel suo volume Virgilio, e quali li vide Enea. Sono dunque necessariamente pagani. E ciò per l’inferno è giustificato dal fatto che esso è popolato da tali per cui Gesù o non scese (e pure questi potevano credere nel Cristo venturo) o scese invano. Perciò la porta è disserrata invano, chè nessuno può uscire, e le tre rovine porgono invano il loro pendìo a risalire: porta e rovine son lì a maggior tormento dei dannati. I viventi possono, per salvarsi, contemplando entrar da quella porta, scendere o risalire per quelle rovine (per la prima agevolmente scendere, per la seconda scendere difficilmente, per la terza non iscendere ma risalire con grande sforzo); ma elle servono a entrare e a far cammino ai viventi; ai morti non servono a uscir dall’inferno o a muoversi dal luogo loro assegnato.
L’inferno è pagano, perché Gesù redense invano, o venturo o venuto, quelli che vi sono.
Ma il purgatorio, come mai? Come mai e perché mai, se non in questo modo e per questa ragione, che dopo il gran dì esso avrà nella sua cima gli spiriti magni e i pargoli innocenti, e solo, in parte, il Saladino? Ma insomma, inferno e purgatorio sono pagani. Pagani, perchè l’uno è l’Averno e il Tartaro, l’altro l’Elisio e la purgazione per vento, fuoco e acqua.
Pagani, perché pagani sono i fiumi che vi scorrono, lo Acheronte, che si fa Stige e Flegetonte e Cocito, e l’unica fontana che si fa i due fiumi Letei, di cui nell’uno l’uom si tuffa e nell’altro beve. Pagani sono i personaggi dell’inferno e anche quelli del purgatorio, fin dove possono; ci sono nel purgatorio gli angeli, e questi non sono fantasmi pagani; eppure paganamente ventilano le anime; eppure anche la Fortuna, dea pagana, è un angelo”.
Lasciamoci trasportare dallo stile pascoliano dall’incipit del libro.
O Ravenna, o mia città paterna, tu non sai forse nemmeno chi io mi sia; chi sia questo tuo figlio che t’offre il suo umile libro. È un uomo esso, per dirtene alcunché, né tristo ora né lieto, né noto né ignoto, che soffrì, nella prima e solo bella parte della vita, molta sventura, la quale ogni tanto gli si fa sentire tuttavia, come appunto questo vento, avanzato a una grande tempesta notturna, che, mentre egli scrive, passa a quando a quando con alcuna sua raffica, e rugge.
….A te, città silenziosa, questo libro: al quale che cosa posso e debbo augurar di meglio, che il sacro silenzio, migliore, non solo delle contumelie, ma anche, e specialmente, delle acclamazioni?
Il libro parla di Dante fiorentino e della Comedia sua ravennate; di quello spirito e di quel poema i quali io sento che avrebbero a essere più vivi nella nostra vita moderna, di quel che consentano coloro che pur li studiano e cercano col solo grande amore che si ha per le grandi, o anche piccole, rovine…”
Giovanni Pascoli è molto legato a Dante, come si nota nella raccolta poetica Myricae che è il suo poema iniziale 1891 o nei primi poemetti del 1904:” or Egli dritto stante / imperiale sopra la persona / tese le mani al pelago sonante “.
Scrive l’enciclopedia Treccani: “Passando poi attraverso il severo impegno degli studi danteschi (1895-1904) il poeta si sofferma con crescente insistenza su Dante persona e mito: così in Odi e Inni il ritornare della cometa di Halley all’orizzonte riporta il Pascoli. al tempo in cui Dante la vide e ascese con essa, torvo astro apocalittico, in una sorta di annullamento cosmico: ” e Dante fu nessuno. / Terra non più, cielo non più, ma il Niente. / Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l’Uno “.
Non poteva, uno dei maggiori poeti e letterati, vissuto a cavallo tra ottocento e novecento, non essere un dantista.