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Sentirsi al confine, sentirsi straniero: Alma di Federica Manzon e il peso dell’irrisolvibile 

Non si può leggere l’ultimo romanzo di Federica Manzon, vincitrice con Alma del Premio Campiello 2024, senza interrogarsi sul significato profondo delle parole “confine” e “straniero”.

La parola confine deriva dal latino cum (“insieme”) e finis (“limite”, “termine”). È quella linea divisoria che segna la fine di un territorio – sia esso fisico o simbolico – e l’inizio di quello attiguo, dividendoli. Finis, in latino, significa già “confine”, e forse è questo che ci ha portati a perdere di vista il senso del cum. La storia di Alma, protagonista ed epicentro del libro, può essere letta come un invito a recuperarlo.

Fin dall’inizio, la protagonista appare contenitrice di un doppio: c’è una Trieste potenzialmente rimossa ma che le rimane sul viso in una Roma non integrata; c’è un viaggio di ritorno sulla scia di frammenti di una guerra –  quella che ha condotto alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia –  da cui si sente coinvolta ma che non è la sua; c’è un nonno che considera chi taglia i ponti con le sue radici un debole, e un papà fantasma per cui il passato non è che una somma di pietre attaccate alla caviglia che precludono la libertà.

Manzon, nel suo appello alla complessità, tenta allora di recuperare il cum della parola “confine”. Quelle due parti che dividono uno stesso territorio, intimo e fisico insieme, sono delimitazioni di un qualcosa che appartiene all’uno e all’altro, li contiene entrambi. Il passato di Alma, che paga il prezzo dell’irrisolto, è ripercorso alla ricerca di una verità univoca che non si proclamerà raggiunta, né lo sarà agli occhi del lettore. Più si procede nella lettura, più una caligine avvolge le convinzioni di chi la fronteggia, che vorrebbe capire e non ne è in grado. Forse perché la comprensione di cosa sia un confine fa tradizionalmente poco leva su quanto c’è di condiviso: lo si vorrebbe rifiutare, invece permane. La traccia, in questo senso, è impronta sulla terra più che linea divisoria.

Ma c’è un altro sostantivo che può aiutare a trovare legami in un romanzo che per natura intreccia fili di disappartenenza: “straniero”. Straniero, dal latino extraneus (“forestiero”), è composto dall’avverbio extra, che significa fuori. Di nuovo, questo valore intrinseco, spesso inosservato, si manifesta nel nucleo del romanzo. Non solo Manzon adotta una narrazione in terza persona, spostando l’attenzione fuori dalla protagonista, ma Alma stessa sembra mantenere un piede fuori dal suo centro. A Roma, non riesce a costruire legami profondi; tornata a Trieste, si comporta da straniera, tentando fino all’ultimo di delimitare una linea netta tra sé e la città. Questa scelta di restare al di fuori risponde in parte a un bisogno fisiologico di proteggersi, in parte all’incapacità di trovare risposte che le permettano di sentirsi pienamente parte della comunità.

Il risultato della combinazione tra un confine che separa ma unisce e il senso di estraneità è una complessità voluta e non sintetizzata, in linea con la visione della scrittrice: la letteratura è chiamata a esplorare le zone d’ombra, rifiutando facili risposte su ciò che è giusto o sbagliato, aprendo piuttosto un varco verso una comprensione il più possibile empatica.

Alma è un romanzo di spessore: richiede al lettore impegno, sforzo e una buona disposizione a scomodarsi. In una riflessione aperta e irrisolta sul dialogo tra le dimensioni della memoria e dell’identità, Manzon districa, con una scrittura consapevole e intelligente, il senso primigenio delle parole “confine” e “straniero”. In un periodo storico dove la guerra è un sasso che bussa alle porte della nostra coscienza, Alma è forse il romanzo di cui avevamo bisogno. Non per risolvere, ma per riflettere, sia come individui che come società.

Giulia Tardio

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