Stavolta dalla soffitta dei libri prendo quello di Antonio Romeo, un po’ per risarcire nella rete internet la memoria di questo autore che appartiene alla primissima repubblica; non ha un profilo su Wikipedia, pur essendo stato un dirigente del Pci della Puglia e in particolar modo di Taranto.
Uso il termine risarcire perché se mettete il nome e cognome sul motore di ricerca google esce anche un boss della ‘ndrangheta. Se aggiungete la parola ‘senatore’ esce il profilo del Senato e l’albo storico dello stesso. Per fortuna!
ROMEO Antonio (10/6/1923 – 9/2/1999) nato a Castellaneta (TA). Ha risieduto a San Giorgio Jonico (TA). Licenza scuola tecnica industriale. Operaio tecnico specializzato è stato uomo di partito, come si diceva a quei tempi. Iscritto dal 1946, primo dopoguerra, rinasceva l’Italia e rinasceva dall’esilio il partito comunista.
L’editore Laicata di Manduria conserva in rete una biografia che riproponiamo.
“Ha svolto attività con compiti di responsabilità nel partito, nel sindacato, nelle assemblee elettive.
Consigliere Regionale della Regione Puglia eletto nella I e II legislatura, è stato Consigliere provinciale; Consigliere comunale di Castellaneta e di Taranto.
Segretario della Camera del lavoro provinciale. Segretario della Federbraccianti provinciale; Presidente dell’Alleanza contadini. Segretario della Federazione del P.C.I. di Taranto; Segretario Regionale del P.C.I. per la Puglia; ha fatto parte della Direzione nazionale, del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo del P.C.I. Lecce – Brindisi – Taranto. Senatore il 20/6/1976 nel collegio di Taranto, fu rieletto Senatore il 13/6/1979.
Si battè per una nuova politica dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno; sostenne la necessità della legge per la trasformazione in affitto dei contratti di mezzadria; si occupò dei problemi di ristrutturazione della siderurgia e dei programmi della P.P.S.S. nel Mezzogiorno.
Antonio Romen pubblicò un libro di ricordi dal titolo: “La Controra”.
Cerchietti Rossi è stato pubblicato nel 1997, due anni prima della sua dipartita. Un libercolo piccolo, di quelli riempiono il palmo della mano.
Sono poesie e diversi racconti con persone comuni, gente che attraversano l’esistenza portandosi dietro sofferenza e dignità; si percepisce l’odore della terra e il sudore della fronte, il sole del sud e questo continuo viaggiare di emigranti, il segno di un mondo che un politico di un tempo sapeva decifrare, capire e poi col tempo, quando si è spento il clamore della polis, del senato, quando il morbo di parkinson era maturo, riuscire a mettere tutto in libro e l’autore scrive, scrive.
Ha scritto “La Controra” “il Metalmezzadro” “ il Mattutino” “ Il sig Ipslon” “ La dimensione dell’uomo”” Lotte e sviluppo economico nella fase costituente nella regione Puglia” “ Ma il tempo inesorabile fugge”
Cerchetti Rossi richiama proprio un racconto che potrebbe essere trasformato in piece teatrale.
Altri racconti richiamano scene di paese del dopoguerra, le incertezze del tempi, di un sud che fa fatica a marciare nel quotidiano, racconti di vita, pennellati su un quadro rurale, aree interne dimenticate, poi ci sono le scene dei ricordi, dell’infanzia, delle numerose zie, dei fotografi ambulanti, dei giochi da fiera, un umanità spicciola che potrebbe occupare ogni tempo, come i racconti che passano il tempo e dopo tanti lustri ora sono qui.
Del libro i Cerchetti Rossi ho preso un racconto che metto qui per carpire l’autore e la sua sensibilità. Buona lettura e alla fine un commento.
All’ombra del fico…vicino al pozzo
A Milano arrivò sull’onda dell’immigrazione di massa che, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, trasferì nelle città del Nord ed all’estero milioni di braccianti, contadini poveri, manovali.
Nel giro di qualche anno un impetuoso flusso emigratorio svuotò interi paesi nel Mezzogiorno. Un fenomeno economico e sociale che non poteva non coinvolgere anche Tommaso.
Tenace, volitivo, aveva capacità di iniziativa iniziativa e buone doti di organizzatore. Capelli e baffi brizzolati, occhi neri, di media statura, temperamento irrequieto, arrivò a Milano in cerca di lavoro, con alle spalle l’esperienza fatta da militare al fronte ed in zone di operazioni per circa sette anni.
Aveva ereditato dal padre, come solitamente avviene nel Sud, un fazzoletto di terra con un pozzo ed alcuni alberi di fico, su cui, durante la permanenza al fronte, faceva progetti. Sapeva che con la poca terra lasciatagli dal genitore non poteva campare con la famiglia, ma gli piaceva pensare che se fosse uscito vivo dalla guerra, quel pezzo di terra poteva diventare un posto tranquillo dove trascorrere gli ultimi giorni da pensionato, coltivando ortaggi, tanto più che si trovava a pochi passi dal paese.
Raccontava che la sua aspirazione era morire su quel poco di terra, all’ombra del fico, vicino al pozzo.
Quando decise di imboccare la via dell’emigrazione, la rottura del legame con il fazzoletto di terra e con la famiglia lo fece soffrire, ma alla fine ruppe ogni indugio.
Scrisse una lettera a suo cugino, Giuseppe, che era stato tra i primi a trasferirsi a Milano, chiedendo di trovargli un lavoro in quella città.
La risposta non si fece attendere. Tommaso mise in due scatole di cartone un po’ di biancheria, pantaloni e giacche da lavoro, ed una calda sera di luglio salì su un treno, affollatissimo di emigranti come lui, che l’indomani mattina lo scaricò alla stazione ferroviaria di Milano Centrale, dove era atteso dal cugino.
Durante il servizio militare e la guerra era stato sbattuto da un posto all’altro, ed aveva conosciuto disagi e sacrifici, paesi e popoli nuovi, costumi diversi, e sapeva che non bisognava farsi influenzare dalle prime impressioni.
Fra l’altro, era piena estate e non avvertiva differenza di clima: faceva caldo anche a Milano. Ciononostante il primo impatto con una grande città, con la mitica Milano, gli procurò un certo turbamento, a cominciare dagli enormi capannoni, sotto i quali arrivavano e partivano i treni a tutte le ore; e la gente si muoveva come in un formicaio, frastornata dagli annunci degli altoparlanti.
Il cugino fu puntuale; si fece trovare all’uscita. L’aiutò a caricarsi le due scatole di cartone sulle spalle, un’altra più piccola la prese lui, e, insieme, scendendo alcune rampe di scale, uscirono nella piazzetta antistante, dove, in fondo al marciapiede, li attendeva uno scalcagnato furgoncino sporco di calce e di terra, sul quale si riusciva a leggere, a malapena, qualche lettera della ditta di appartenenza.
Sistemarono il misero bagaglio sul quale sedettero. L’amico, dal posto di guida, raccomandò di tenersi afferrati alle sponde per non correre il rischio di cadere. Partirono, e dopo un’ora di giravolte nel traffico milanese, raggiunsero una grande staccionata che circondava un cantiere edile, in cui erano in corso lavori di sterramento. All’entrata, presso la baracca del guardiano, si fermarono e scaricarono i cartoni di Tommaso, che furono sistemati alla meglio.
Si sedettero intorno ad una cassa e cominciarono ad informarsi sulle rispettive famiglie. Ogni tanto Tommaso si asciugava il sudore, ed esclamava: “Accidenti, non solo da noi; anche a Milano fa caldo!”. “Mi avevano detto – riferiva Tommaso – di cautelarmi perché a Milano fa freddo; c’è la nebbia”. “Ma quella nell’inverno, non adesso. Aspetta e vedrai”. – gli rispose Giuseppe, sorridente. “Vedrai” ripeté, dandogli delle pacche sulle spalle.
“Ma poi, caro Tommaso, nebbia o non nebbia, l’importante è che qui c’è il lavoro. Tu lo sai che soltanto di sole non si campa.
Ma veniamo al tuo lavoro. Questa baracca è il mio alloggio ed il mio posto di lavoro. Come ti scrissi io faccio il guardiano di questo cantiere. L’uomo di fiducia della ditta. Ho parlato con il padrone, per farti dormire qui provvisoriamente. Mi raccomando, non farmi fare brutta figura”. “No, non la farai, “rispose, sorridendo, Tommaso, che aveva colto il significato implicito di quella raccomandazione.
L’indomani cominciò a lavorare e non ebbe difficoltà ad inserirsi, anche perché si trattava di lavori di sterramento, di movimento e trasporto di terra. La sera, smesso di lavorare, si ritirava nella baracca e preparava da mangiare per tutti e due.
Poi, usciva a godersi un po’ di fresco seduto su un vecchio bidone di pittura.
A quell’ora la città appariva come avviluppata in un grande alone di luce che sfumava in vari colori, con alcuni punti più intensamente illuminati. Quasi sfiorando la staccionata, dalla parte alta del cantiere, passava una strada di intenso traffico che diffondeva rumori in tutta la zona.
Stanco per il lavoro e per il caldo che aveva sofferto durante il giorno, con la spalla appoggiata alla parete della baracca, in attesa che il cugino ultimasse il giro di vigilanza, pensava a ciò che avrebbe dovuto fare per una sistemazione diversa.
Era grato a Giuseppe per l’interessamento e l’ospitalità, ma sapeva che in quella baracca non poteva restare a lungo, anche perché doveva chiamare la moglie ed i figli. Lui, da solo, a Milano non voleva starci, e lontano dalla famiglia c’era già stato parecchio durante la guerra.
Man mano che passavano i giorni questo problema cominciava ad assillarlo. Non era tipo da starsene fermo, in attesa che altri lo risolvesse. La domenica ed i giorni festivi si recava ai bar dove si incontravano i meridionali e dove era possibile avere notizie ed indicazioni di aziende che offrivano lavoro e di luoghi in cui poter apprestare un alloggio provvisorio.
In certe ore gli incontri al bar e nelle piazze diventavano veri e propri raduni, in cui si consumava la solitudine e la nostalgia del paese d’origine, laddove, per l’appunto, la piazza od il bar costituivano il centro della vita sociale.
Non gli fu facile risolvere il problema dell’alloggio. Le notizie che riusciva ad avere non sempre indicavano possibili soluzioni; in quel periodo a Milano giungevano dal Sud migliaia di lavoratori al giorno, ed era difficile trovare una casa, ma anche un sottoscala. Ma Tommaso non era tipo da arrendersi.
Ormai era a Milano, lavorava e guadagnava bene; i quattro figli erano già grandicelli e potevano crearsi un avvenire dignitoso. “Indietro non si torna” – diceva. Sapeva bene cosa poteva significare: certamente disoccupazione e miseria.
Il pezzo di terra ereditato dal padre aveva un valore insignificante rispetto ai bisogni della famiglia. Ma pensava con nostalgia a quella terra; soprattutto nelle giornate di nebbia, che lo tormentavano e lo facevano stare male.
In guerra aveva contratto una malattia polmonare, e più volte, proprio nei giorni di nebbia, pensava che, forse sì, al paese un giorno sarebbe tornato, dopo aver sistemato i figli. Il suo sogno era di poter morire all’ombra del fico, vicino al pozzo nel fondo che gli aveva lasciato il padre.
Ma, intanto, cercava dove alloggiare. Con un po’ di fortuna, dopo alcuni mesi, insistendo, riuscì a farsi affittare in periferia un locale di pochi metri quadrati, nel quale aveva svolto la propria attività un ciabattino. Non era adeguato all’alloggio di sei persone.
“Pazienza, – disse Tommaso ai figli ed alla moglie – l’importante è cominciare! Poi si vedrà”.
Milano non lo tradì. Prima i figli, e successivamente la moglie cominciarono a lavorare. Nei primi tempi il rischio era quello di smarrirsi in una realtà tanto diversa dal paese di provenienza. Cominciarono con proprie iniziative.
La notte uscivano con carrettini improvvisati a raccogliere dai contenitori dei rifiuti rottami di metalli e carta da riciclare, che, prima di rientrare, vendevano ad appositi magazzini.
Fecero, poi, altri mestieri, e, piano piano, cominciarono ad inserirsi nel sistema produttivo dell’hinterland milanese.
Oggi, i figli e la moglie gestiscono loro piccole aziende. Soltanto i figli e la moglie, perché Tommaso, a seguito dell’aggravarsi della malattia contratta in guerra, è morto a Milano. Il sogno accarezzato per tanto tempo di finire i suoi giorni nella terra del padre, all’ombra del fico vicino al pozzo, non si è avverato.
Lo hanno seppellito, un giorno di nebbia, a Milano, in una fossa scavata da una grande pala meccanica. (Tratto da Antonio Romeo – Cerchietti Rossi )
Un racconto struggente, di eroi familiari, di quelli che hanno fatto l’Italia, ai quali dobbiamo esser grati, come siamo grati ad Antonio Romeo che ha voluto regalarci le sue poesie e le sue emozioni in suo ricordo.
Accanto all’immagine dei carrettini che prendono rifiuti dai cassonetti, terribilmente attuale a Taranto, se lui li vedesse oggi chissà cosa direbbe o scriverebbe, noi non riusciremmo mai ad essere sobri e delicati come lui.