di Maria Pia Latorre
Dato alle stampe nel settembre 2024, per Tabula Fati, la raccolta poetica Quando gli alberi erano miei fratelli, di Guglielmo Aprile. Un rifugio di carta costruito sapientemente dall’autore napoletano, che ha all’attivo una lunga serie di opere poetiche scritte con fresco inchiostro di clorofilla, come le precedenti “Elleboro”, “Il giardiniere cieco” e “Il sentiero del polline”.
L’opera è un’esplorazione del mondo naturale attraverso il percorso introspettivo dell’autore e, sin dal titolo, fortemente suggestivo, promette ciò che poi mantiene: un dialogo serrato con la natura.
Le poesie contenute in Quando gli alberi erano miei fratelli sembrano venire da un’altra epoca, in una sorta di estraniamento totale dal mondo reale. Nella silloge, suddivisa in sei sezioni, si vive un’atmosfera bucolica, dal sapore antico, con toni riecheggianti le civiltà greca e romana (sopratutto nella quarta sezione, “Teofanie silvestri”), spostandosi verso le civiltà nordiche celtiche e baltiche, attraverso il tema centrale del mito del bosco sacro e del culto delle piante (dendrolatria).
In ogni lirica viene rievocata un’epoca primordiale, un tempo in cui l’uomo e la natura coesistevano in un’armonia profonda e perfetta, poiché l’uomo, praticando il culto della sacralità dell’albero, si faceva suo umile accolito. Nell’opera c’è un controllo della parola e un uso degli strumenti tecnici di estrema levatura (oggidì piuttosto rari).
Non v’è traccia del presente, di inquinamento, di piogge acide e incendi, solo in “Sfinge dell’estate” si intuisce il problema dell’innalzamento delle temperature e il relativo dramma dei cambiamenti climatici sul pianeta. È come se nel libro si compia una sorta di idealizzazione dell’albero, con tutta l’annessa parabola mistico-eroica, dal mito di Pan, con gli alberi dalle sembianze umane, al mito delle driadi. In alcune liriche, come in “Misticismo degli alberi”, gli alberi sono immaginati come asceti con le braccia aperte al cielo, “cenobiti in preghiera”. L’uomo altro non è che una creatura inferiore anelante a farsi pianta, riavvicinandosi, in questa maniera, ai cicli del bosco sacro.
Guglielmo Aprile, saggista, oltre che poeta, utilizza tutta la sapienza di chi possiede il mestiere e gli attrezzi per raccontarci poeticamente gli alberi, in paesaggi dove la “pineta… sta a poche svolte di strada dalla spiaggia” e attraverso questo sguardo lungo ci porta sullo scenario dell’esistenza.
Ciò che sorprende è il meraviglioso dialogo con la natura, presente in ogni spazio e in ogni momento; natura sia madre che divinità. Il poeta vive in simbiosi con lei, ne tiene vivo e alto il dialogo, perché sa che da lì viene tutta la forza generatrice, tutta l’energia utile a resistere, nel senso prosciugato di r-esistere, cioè di esserci.
Un’architettura alta, ben costruita (attraverso l’uso pressoché costante dell’endecasillabo con le sue varianti, e attraverso l’uso frequente dell’enjambement, che ne tracciano la chiara firma.
Tante le grandi piante presenti nella silloge (ne sono nominate venti), tra lecci e mandorli, salici e pioppi, ontani e betulle, alcuni più volte richiamati, come l’ulivo e il gelso, altri immaginati come maghi e astrologhi. Li elenco: ulivo, mandorlo, salice, pino, pioppo, olmo, platano, gelso, noce, cipresso, ontano, cedro, acacia, larice, leccio, frassino, abete, betulla, quercia, una teoria di cortecce e chiome da abbracciare.
Lo stile di Aprile è caratterizzato da una grande liricità e da un uso sapiente delle immagini. Il linguaggio è ricco di metafore e simboli, che invitano il fruitore a una lettura profonda e personale. Molto intensa la quinta sezione, un delicato omaggio a Rafael Alberti, si tratta de “L’albero sradicato”, quasi un canto d’amore: “Cammino sotto le arcate che gli alberi/ disegnano sul suolo, ed essi stendono/ un’ombrosa carezza sui miei passi”.
Dell’opera e del proprio percorso poetico l’autore dice: “Volevo uscire dal nostro tempo, con il quale non riesco a identificarmi, e ho provato a dare vita a qualcosa che somigliasse a un poema sacro, a una lunga preghiera composta di frammenti, alla formula rituale pronunciata da un druido irlandese o da un sacerdote di Artemide: il richiamo al mito è intenzionale, perché funzionale al recupero di una religiosità ancestrale, di tipo animistico, e alla promozione di un’ idea di poesia che aspiri a risacralizzare il mondo naturale.
Per me ad essere reale è la fede nella forza spirituale che permea gli alberi, più delle urgenze del mondo di oggi, per questo mi sento più vicino al sentimento cosmico dei nativi americani che all’uomo contemporaneo; anche la ricerca di eleganza formale ha una sua giustificazione: volevo che il verso recasse una traccia delle voci inudibili con cui le labbra degli alberi modulano la loro sinfonia. Negli alberi tutto ci ricorda che la natura è rinnovamento e perpetua metamorfosi, e credo che la poesia debba restituirci questa sapienza dimenticata, se vuole salvare la nostra epoca dalla condanna del nichilismo, esito estremo di un antropocentrismo che ha separato l’individuo dal resto della creazione”.
La natura, e in particolare gli alberi, diventano, dunque, non solo veicoli per una riflessione sulla spiritualità e sul senso della vita, ma una traccia inedita per evadere una realtà a tratti insopportabile e per aprire a nuovi sentieri.
Maria Pia Latorre