L’idea dell’immortalità dell’anima e del corpo è sempre stata collegata ad un dono divino non solo racchiuso nella parabola storico religiosa e nel messaggio ultraterreno di Gesù. Cristo, resuscitando, avrebbe sconfitto la morte dimostrando ai testimoni e ai secoli futuri che il pungiglione della morte e la sua vittoria sono state sconfitte per sempre: divina ed eterna promessa di salvezza e d’immortalità per coloro che credono nel messaggio del fondatore del cristianesimo.
Già nel Vangelo di Giovanni Evangelista, il discepolo che Gesù amava e l’apostolo profeta del Nuovo Testamento per via della scrittura a lui attribuita dell’Apocalisse nell’esilio di Patmos, il tema dell’”Immortalità come dono divino” appare nella sua più carnale concretezza. Un passo del Vangelo di Giovanni è illuminante e racchiude il dubbio di Cristo agonizzante in croce sul destino che egli vorrebbe riservare al suo discepolo più amato. A Gesù Giovanni figlio di Zebedo offrì sin da subito ardore di fede e candore d’anima e non ritrattò questi doni nelle ore supreme del dolore e della Passione di Cristo. Così Giovanni, nel calvario, raccolse il testamento di Cristo ed ebbe da quest’ultimo in consegna la creatura più amata: Maria.
Le ultime parole che Cristo rivolge a Giovanni rappresentano un dubbio simbolico, quasi un’allusione per un uomo speciale e dal destino unico. In Giov. XXI, 21-22, Cristo agonizzante si pone una domanda simile a un dubbio: “E se io voglio che costui(Giovanni) rimanga sino al mio ritorno?”: parole forse sibilline ma così chiare nella loro ermeticità, segno del singolare destino del loro destinatario. Così si diffusero le voci che Giovanni Evangelista, morto tra il 98 e il 99 d.C. , non sarebbe mai morto, sarebbe rimasto sulla terra ad aspettare, speranzosamente e positivamente, il ritorno del Messia. Ma Giovanni morì come tutti gli uomini e l’immortalità a lui attribuita è un simbolo della vita contemplativa che egli impersonava, destinata a sopravvivergli sino alla fine della Chiesa con la promessa, nei tempi più bui, delle gioie delle visioni future, segno concreto dei benefici e salvezza che Dio a tutti riserverà. L’immortalità di Giovanni, velatamente insinuata come dubbio negli ultimi respiri di Gesù in Croce, è l’immortalità della vivacità religiosa e salvifica del fondatore del cristianesimo, estesa a tutti i credenti, specialmente a coloro che furono i semplici, puri e fraterni protagonisti delle prime generazioni cristiane.
C’è un’altra immortalità secondo le scritture bibliche e le famosissime leggende medioevali che traggono spunto dalla parola biblica.
Caino è il primo omicida della storia. Primogenito di Adamo ed Eva, Caino compendia in se tutte le qualità basse e inumane dell’essere umano: la ferocia, l’invidia, l’ira, la violenza, la volontà omicida. Caino uccide l’innocenza del fratello Abele per pura invidia, perché Iddio preferisce l’oblazione pura di Abele ai sacrifici avari e privi d’anima del fratello omicida. Il cruccio di Caino determinerà il primo assassinio della storia e, con esso, la prima grande condanna all’immortalità di un uomo: immortalità fisica, condanna e non dono candido e glorioso come in Giovanni.
Caino fu condannato a non morire e, portando il misterioso segno di Dio che servirà a scamparlo dalla vendetta, sarà condannato al più grande male che possa colpire l’essere umano: l’isolamento dai suoi simili, l’emarginazione, il rifiuto senza che questi mali esistenziali e sociali possano trovare epilogo nella morte del condannato ad errare in eterno a motivo della sua colpa. Persecutore e perseguitato, Caino rappresenta il personaggio più tragico e potente dell’intera storia sacra.
L’immortalità del personaggio è una condanna ad una morte in vita, una vita che non finirà mai poiché nessuno potrà materialmente sottrarre Caino al suo destino infliggendogli una “morte liberatrice”. Perverso e pervertitore come la sua discendenza, a Caino è attribuita la fondazione della prima città della storia umana(Genesi, IV , 1-17). L’immortalità di Caino, come quella dell’Ebreo Errante, adombra la sinistra intensità del male che è condannato ad un’eterna vita d’isolamento e di stenti, una pena più invasiva, intensa e misticamente implacabile di una vita infelice che potrà un giorno concludersi con la provvidenziale anestesia della morte.
L’Ebreo Errante è il secondo grande esempio del malvagio senza speranza, condannato e non premiato dall’immortalità. La figura del malvagio ebreo costretto ad errare sino al giorno del Giudizio nasce, forse, per un passo del Vangelo di Giovanni ed è protagonista di una leggenda che varia trapassando di paese in paese e di fantasia in fantasia. Come per tutte le leggende che aspirano a lanciare moniti e insegnamenti, quella sull’Ebreo Errante assume diverse forme attraverso diversi protagonisti che assumono le sembianze dell’Ebreo al tempo della crocifissione di Gesù.
Secondo i dati contenuti nell’Historia Major del benedettino inglese Matthaus Paris(Mattia Paris), le ipotesi tramandate sul personaggio sono le seguenti: si sarebbe trattato di un ciabattino che caccia dalla soglia di casa Gesù desideroso di sostarvi un attimo perché esausto durante il Calvario o del custode del palazzo di Ponzio Pilato, Cartafilo, che avrebbe colpito con un pugno Gesù mentre costui indugiava sulla porta cui Cartafilo era addetto, sempre durante la salita al Golgota. Picchiato e dileggiato Gesù, sia nella prima come nella seconda ipotesi, l’Ebreo avrebbe ricevuto da Cristo le parole della grande condanna che cambiano a seconda del racconto ma esprimono sempre lo stesso significato.
Gesù avrebbe risposto al’ebreo spietato e dileggiatore “Io voglio sostare qui un momento ma tu dovrai camminare sino al giorno del Giudizio”. In Germania la leggenda dell’Ebreo Errante ricompare potentemente nel XVI secolo attraverso il racconto leggendario del Volksbuch(Libro popolare), pubblicato per la prima volta a Leida nel 1602. Anche qui la leggenda non si contamina ma è sempre la stessa: l’ebreo assume il nome di Assuero(Ahasverus) e il suo racconto non si discosta ma coincide con i racconti delle leggende precedenti contenute nell’Historia Major. Assuero, Cartafilo o il ciabattino sono sempre la stessa persona, compiono lo stesso atto dispregiativo verso Gesù desideroso di sostare un attimo sulla soglia dell’ebreo durante la salita al Golgota.
La morale di questo personaggio si riassume nell’esecuzione della sua condanna ad una vita immortale o ad un’immortale morte in vita: l’ebreo, da quel giorno di Passione, assunto il nome di Giuseppe e battezzato da Anania, conduce una vita eterna di stenti, sofferenze e penitenza, fiducioso di ottenere un giorno il perdono per le sue colpe. Ogni volta che raggiunge i cent’anni si sente venir meno poi si riprende e continua la vita di stenti e penitenza, condannato a non poter morire nonostante l’età avanzata.
Come in Caino, la morte gli viene sottratta e, con essa, il riposo eterno. Esempi di fosca quanto grandiosa tragicità, entrambi subiscono un particolare destino che li preserva da una condanna immediata delle loro colpe ma li fa scontare una sanzione divina più significativa che potrebbe apparire felice se l’immortalità imposta fosse preludio ad un’eterna vita di gioia e felicità. Non è questo il caso: come in Caino il segno distintivo posto da Dio sulla sua pelle lo condanna a vivere completamente solo senza poter por fine ai suoi giorni infelici, nell’Ebreo Errante assistiamo alla stessa sanzione che condanna il personaggio a peregrinare miseramente sino al giorno del Giudizio.
Il tempo diviene così protagonista assoluto della sanzione imposta perché è nel suo espandersi oltre i limiti della vita terrena che i due personaggi vedono concretizzarsi l’espiazione delle loro colpe le quali potrebbero apparire ad un osservatore superficiale destinate a potersi risolvere con una condanna ad un pena immediata ma che invece devono realizzarsi nella “sanzione perpetua” ad una vita eterna di miseria e pentimento.
Caino e l’Ebreo Errante finiscono per rappresentare quell’umanità crudele e peccatrice, perpetuamente sola nella sofferenza interiore nata dal rimorso. Un’umanità cattiva che per la sua stessa cattiveria lotta e si travaglia.
Dott. Yari Lepre Marrani