di Davide Romano, giornalista
C’è una nostalgia che mi perseguita, come una vecchia canzone che non riesco a togliere dalla testa. È la nostalgia per il giornalismo di una volta, quello che oggi sembra diventato un’arte perduta, come la lavorazione del legno a mano o la calligrafia.
Parlo di un giornalismo fatto di fatica, di nottate passate alla macchina da scrivere, di articoli battuti con dita consumate e di sigari toscani ridotti in cenere accanto alla Olivetti Lettera 32. Un giornalismo in cui, come diceva Enzo Biagi, “le parole erano pietre,” e dietro ogni articolo c’era una vita spesa a cercare la verità, o perlomeno una sua versione accettabile.
Non mi fraintendete, non voglio fare il vecchio nostalgico che rimpiange i bei tempi andati solo perché erano i suoi. Ma c’è una differenza sostanziale tra il giornalismo di oggi e quello di ieri, e non è solo una questione di tecnologia. È una questione di spirito, di approccio al mestiere, di rispetto per le parole e per chi quelle parole le avrebbe lette.
Ricordo i tempi in cui un giornalista si guadagnava il pane con le scarpe consumate, non con i tweet. Bisognava andare, vedere, ascoltare, prendere appunti su un taccuino stropicciato, e poi passare ore a scegliere le parole giuste, quelle che avrebbero reso giustizia ai fatti e alle persone coinvolte. Non c’erano scorciatoie. Se volevi raccontare una storia, dovevi conoscerla fino in fondo, dovevi viverla quasi sulla tua pelle. Come scriveva Oriana Fallaci, “il giornalismo è una missione. È un mestiere che ti fa bruciare, che ti fa soffrire, ma che non ti lascia mai”.
E poi c’era la responsabilità. Già, perché un giornalista sapeva che le sue parole avevano un peso. Potevano fare male, scatenare reazioni, cambiare le sorti di una carriera, di una vita, persino di un Paese. Come ammoniva Luigi Barzini: “La penna è più forte della spada, ma richiede un polso fermo e una mente chiara”. Ogni parola veniva soppesata come si fa con l’oro, mentre oggi le parole volano leggere, spesso senza alcun riguardo per la verità o per le conseguenze che potrebbero avere.
Non c’è più quella cura maniacale per la verifica dei fatti, per il controllo delle fonti. Nel giornalismo di una volta, la notizia non era solo una merce da vendere al miglior offerente. Era un impegno morale, un patto con i lettori. Come diceva Indro Montanelli, “il giornalismo è fare domande. È cercare la verità, e dirla, anche quando fa male”. E se si sbagliava, si pagava caro l’errore, perché la credibilità era tutto. Oggi, al contrario, l’errore sembra essere diventato la norma, e se si scopre di aver sbagliato, poco importa: domani ci sarà un’altra notizia a coprire tutto.
Ecco, questo è ciò che mi manca del giornalismo di una volta: il rispetto per la verità, per i fatti, per le persone. C’era una sorta di nobiltà in quel lavoro, un senso di missione che andava al di là del semplice mestiere. Oggi, invece, vedo troppi giornalisti che sembrano più preoccupati di ottenere clic che di raccontare il mondo per quello che è. Si corre dietro all’ultima moda, all’ultimo trend, inseguendo le storie più facili, quelle che fanno rumore senza fare domande scomode. Ma il vero giornalismo non è fatto di rumore, è fatto di silenzio, di riflessione, di domande e di dubbi.
E poi c’era quella cosa chiamata stile. Oggi, leggendo certi articoli, ho l’impressione che il mestiere del giornalista si sia ridotto a una sterile elencazione di fatti e opinioni, senza quel tocco personale che faceva la differenza. Un tempo, ogni giornalista aveva la sua voce, il suo modo di raccontare le cose. Come diceva Eugenio Scalfari, “lo stile è l’uomo” e in quelle righe c’era un’anima. Oggi, invece, troppo spesso le notizie sembrano uscite da un algoritmo, tutte uguali, tutte piatte, tutte senza vita.
Non voglio dire che tutto il giornalismo di oggi sia da buttare. Ci sono ancora, per fortuna, giornalisti che sanno fare il loro mestiere, che sanno raccontare le storie come si deve. Ma sono sempre più rari, sempre più isolati in un mare di superficialità e approssimazione.
E allora, forse, è giusto ricordare quei tempi andati non per mera nostalgia, ma per ritrovare quello spirito, quella passione, quella dedizione che facevano del giornalismo un mestiere nobile. Perché, come diceva Montanelli, “il giornalismo è il diario della storia” e di quel giornalismo, oggi più che mai, abbiamo bisogno come dell’aria.
foto Treccani