Intervista al prof. Romualdo Rossetti
Prof. Romualdo Rossetti, è giugno e torniamo a dialogare con lei di tarantismo. Da studioso del fenomeno ci può illustrare quali sono state, a suo avviso, le cause per le quali era stato misconosciuto nel passato più recente?
Non è facile rispondere in maniera esaustiva alla sua domanda per più ordini di ragioni. Se si riferisce al fenomeno osservato e studiato nel 1959 da De Martino a Galatina, posso in piena coscienza risponderle che il tarantismo proprio in quell’anno subì un momento di forte crisi, e aggiungerei, non certo per un suo naturale annichilimento, quanto piuttosto, per colpa di una precisa volontà politica orientata a sbarazzarsene. Altri ordini di ragioni mi suggeriscono, invece, di essere molto più cauto riguardo a un suo presunto definitivo dissolvimento, perché il tarantismo è come un grande ofide che si rigenera mutando pelle.
Quindi lei chiama in causa «una precisa volontà di qualcuno di sbarazzarsene», a chi si riferisce precisamente?
Bisognerebbe fare un salto all’indietro nel tempo per giungere agli anni Cinquanta, quando all’interno del PCI il più grande e meglio strutturato partito della sinistra italiana, per volontà dei suoi maggiori rappresentanti, in primis del segretario Palmiro Togliatti, ma anche di personaggi del calibro di Mario Alicata, Ambrogio Donini o Carlo Muscetta, che espressero la volontà di modernizzare il paese, sbarazzandosi di tutte quelle manifestazioni folkloriche irrazionali legate al passato. Buona parte di questi avevano già manifestato il loro dissenso a Cesare Pavese e a Ernesto De Martino per aver dato troppo spazio, nella famosa “Collana Viola” dell’Einaudi, alle opere di alcuni autori, da loro ritenuti dei pensatori reazionari perché compromessi col nazionalismo dei loro paesi, come Mircea Eliade o Karoly Kerenyi.
Qualche altro dettaglio in merito?
Già nel 1950 Ernesto De Martino aveva, dal 14 febbraio al 20 agosto, vissuto e lavorato a Lecce ricoprendo la carica di commissario straordinario della federazione provinciale del PSI e in quell’occasione aveva appreso dell’esistenza del fenomeno a Galatina. Nel 1957 aveva osservato le fotografie in bianco e nero delle “spose di San Paolo” immortalate dal famoso fotografo francese André Martin. In occasione, poi, dell’arrivo a Roma presso il teatro Parioli, nel dicembre del 1959, di una compagnia di spettacolo di danze Vudu proveniente da Haiti, De Martino fu invitato a fornire al pubblico una spiegazione storico-etnologica del più noto tra i culti di possessione afro-americani. Fu allora che confessò a Vittorio Lanternari e ad altri, che anche in Italia esisteva un rito simile: il tarantolismo o tarantismo. Aveva notato alcune importanti corrispondenze tra le possedute danzatrici haitiane e le cosiddette “spose di San Paolo”, che a suo dire erano entrambe vittime di un adorcismo.
Ci parli dell’Adorcismo professore Rossetti
Adorcismo è un termine utilizzato soprattutto in ambito antropologico culturale e storico-religioso. Implica un processo completamente opposto a quello dell’esorcismo. Se quest’ultimo identifica pratiche magiche e riti religiosi impiegati per estirpare entità demoniache o malefiche da persone o luoghi, l’adorcismo rappresenta, invece, quell’insieme di pratiche e di riti idonei a favorire l’ingresso o l’integrazione di entità ritenute benefiche, o quanto meno utili a uno scopo. Nel caso del tarantismo l’intervento del Santo nella sfera corporale o familiare dell’afflitto per ottenere la tanto sospirata guarigione.
Quindi De Martino aveva realizzato un raffronto tra i due riti?
Soltanto in parte. Per De Martino il tarantismo come patologia non era mai esistito. Lo ha ribadito lo scorso anno Fabio Dei, uno dei massimi antropologi italiani, durante la presentazione della nuova edizione de La terra del rimorso da lui curata in collaborazione con Marcello Massenzio per la Einaudi. Per De Martino il tarantismo era il frutto di una convinzione popolare che era andata radicandosi nel corso del tempo, con flebili echi mitologici, che in buona parte smentì facendolo derivare storicamente dal Medio Evo, precisamente dallo scontro-incontro dei cristiani con i musulmani durante le Crociate. Nella sua ricerca non si soffermò molto sulla letteratura medica del XVIII- XIX secolo, laddove si affermava senza ombra di dubbio la stretta relazione tra il morso della tarantola e la cura coreutico musicale. Ci sono stati eminenti medici del secolo scorso che fecero degli studi approfonditi sulla veridicità del fenomeno e pubblicarono opere o testimonianze preziose su importanti riviste mediche nazionali.
Ci parli anche di questi autorevoli medici e dei loro studi e diagnosi.
Tra i tanti che si occuparono di tarantismo sotto un profilo medico, voglio ricordare due nomi su tutti gli altri; quello dell’archiatra del Regno di Napoli, Dott. Achille Vergari di Nardò, e quello del medico e cerusico di Muro in Terra d’Otranto – ora Muro Leccese – il Dott. Giuseppe Ferramosca. Il primo nel 1839 diede alle stampe a Napoli un saggio intitolato sul Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, nel quale studiò l’eziologia della patologia, citando i nomi di altri suoi illustri colleghi che sostenevano l’esistenza dell’afflizione da morso, come il Dott. Miglietta, il Dott. Pasquali, il Dott. Calabrese, il Dott. Marugi insieme a tantissimi altri. Successivamente, stabilì che fenomeni simili al quelli del tarantismo esistevano in ogni parte del pianeta. La sua opera la si può considerare una testata d’angolo della ricerca medica tarantologica. Il Dott. Ferramosca, invece, pubblicò sul prestigiosissimo periodico medico «Il Filiatre Sebezio» il caso che aveva avuto modo di osservare in prima persona nel suo ambulatorio nel giugno del 1834.
Ci racconti il caso osservato e descritto dal dottor Ferramosca
Certo! Il 3 giugno del 1834 giunse da Otranto, nel suo ambulatorio, una giovane donna che lamentava di essere afflitta da varie tipologie di sofferenze, tra cui un forte dolore alla laringe. La donna soffriva di attacchi di tosse, conati di vomito ma senza espulsione, inappetenza, difficoltà respiratorie. Prima di recarsi dal Ferramosca era stata visitata da altri medici che le avevano prescritto dei farmaci nervini e delle abluzioni che non aveva sortito però alcun beneficio. Uno dei tanti medici che l’aveva visitata, visti i pochi risultati ottenuti le consigliò di ascoltare una tipologia di musica adatta a guarire i tarantati, al cui suono di quella la donna cominciò a danzare sentendosi subito molto meglio. Nonostante il ballo, però, le difficoltà respiratorie dopo ripresero ad affliggerla tanto da spingerla a rivolgersi infine al Dott. Ferramosca, noto in tutta la Provincia di Terra d’Otranto per la sua fama di guaritore. Proprio mentre il dottore la stava visitando, la donna ebbe un colpo di tosse tanto forte da espellere dalla bocca un tarantola viva attaccata ancora al suo filo di ragnatela. Il Ferramosca seppe quindi dalla donna – che da quel momento era guarita da tutti i suoi malanni – che qualche tempo prima si era recata, con delle amiche presso un vigneto, dove aveva ingurgitato senza masticarlo abbastanza, un grappolo maturo di uva “primiticcia” sottratto furtivamente alle altre. Da quel giorno erano cominciati i suoi guai.
Una storia fantastica! Pertanto possiamo ritenere che il tarantismo, come ha detto il Vergari, non sia un fenomeno solo salentino!
Assolutamente no! Il fenomeno era diffuso in tutti i paesi bagnati dal Mar Mediterraneo ma presumibilmente anche altrove. Pensi che di tarantismo hanno parlato personaggi illustri come Leonardo da Vinci, Tommaso Campanella oltre ai famosissimi Giovan Battista della Porta, Epifanio Ferdinando, il gesuita Athanasius Kircher, Giulio Cesare Vanini e il filosofo George Berkeley, solo per citarne alcuni. Il fenomeno fu studiato in Francia, in Spagna e addirittura in Olanda.
Ritorniamo allo studio del De Martino nel 1959?
Glielo stavo giusto per chiedere, perché è necessario conoscere importanti dettagli, che a molti sono sfuggiti, più o meno consapevolmente. Va ricordato che nel giugno del 1959, proprio l’anno in cui aveva preso avvio l’indagine sul tarantismo da parte dell’equipe di De Martino, un’ordinanza del sindaco comunista di Galatina, Biagio Chirenti, rispettoso delle direttive del segretario del suo partito, dispose per ragioni sanitarie, la chiusura del pozzo “miracoloso” di S. Paolo, adducendo la motivazione che l’acqua fosse inquinata da colibatteri fecali, germi che negli anni precedenti, però, stranamente non avevano mai causato alcuna epidemia di Escherichia Coli. Personalmente conosco una tarantata, ancora in vita che, nel 1957, bevve abbondante acqua di quel pozzo dalle proprietà emetiche non subendo, però, alcun danno; e come lei tante altre. Bere quell’acqua era un passaggio obbligato per poter poi pretendere la guarigione.
Dunque lei imputa alla scelta, da parte dell’allora sindaco di Galatina, l’inizio dell’oscuramento del fenomeno del tarantismo?
Ne sono sicuro! Inoltre in ambito devozionale, sia pur extraliturgico – perché va ricordato che il tarantismo è un rito non disciplinato dalla Chiesa Cattolica – privare il devoto di ciò che da sempre è ritenuto come una soluzione seppur momentanea, è qualcosa che rasenta la blasfemia devozionale.
Quindi lei parla di una «soluzione momentanea», perchè?
Perchè il tarantismo per sua natura ha una valenza ciclica. Nell’opinione comune le tarantate e i “tarantuni”, venivano scelti da San Paolo per ragioni insondabili alla mente umana, a volte non strettamente collegate al loro vissuto. Il santo pretendeva devozione a prescindere da tutto, anche dalle loro colpe. Inviava, quindi, il malessere tramite morsicatura da tarantola, puntura da scorpione o sfiatatura da scurzone [serpente costrittore non velenoso ndr.], poi operava la grazia tramite l’utilizzo dell’acqua miracolosa del suo pozzo, in realtà cisterna, segnando, però, per sempre i suoi eletti che, in prossimità dei giorni del loro “primo morso” ritornavano a patire un malessere, anche se molto più leggero, a volte per tutta la vita.
Pertanto De Martino si trovò dinanzi a un fenomeno già in declino?
Sì, e gli diede il colpo di grazia! Quando vide le tarantate e i tarantati, nascosto dietro la tribuna audiendum sacrum della piccola cappella di san Paolo – alcuni sostengono in compagnia del medico Wilhelm Katner, un altro grande studioso del tarantismo – si rese conto di osservare quasi delle larve in cerca dell’antico rimedio murato per motivazioni sanitarie. Fu proprio lì che De Martino pensò alle apocalissi culturali prossime a venire e alla fine di mondi antichi destinati ad annichilirsi dinanzi all’avvento della modernità. Quei pensieri avrebbero generato la sua ultima opera, che rimase non conclusa a causa della sua prematura dipartita. Mi riferisco a La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali, che verrà pubblicata postuma da alcuni suoi collaboratori. Un’opera molto più pregnante de La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, di cui tanto si parla.
Secondo lei perché, nonostante quanto ha appena riferito, La terra del rimorso ha ottenuto così tanto successo? Perché De Martino scelse proprio quel titolo? Quali le implicazioni del rimorso col tarantismo?
Perché l’opera in questione è stata scritta con uno stile molto affascinante e o persuasivo. Ricordiamoci che Ernesto De Martino aveva il dono della scrittura. Il saggio comparve sugli scaffali delle librerie nel 1961 ma fu redatto frettolosamente, fra l’autunno del 1959 e la primavera del 1960, alla fine della spedizione etnologica condotta nel Salento. Il suo rapido successo dipese anche da un’intelligente trovata promozionale. Fu accompagnato da un disco trentatré giri, con commenti di Diego Carpitella e dello stesso De Martino, il tutto a cura del Centro nazionale studi di musica popolare dell’Accademia Santa Cecilia e della RAI. Riguardo al titolo scelto si sono fatte molte ipotesi. Si è parlato di ciclicità dell’evento scatenante il malessere; il “morso che ritorna”, si è parlato di rimorsi inespressi di alcune tarantate che col ballo venivano fuori. Il professor Eugenio Imbriani ha dato una lettura diversa e per certi versi molto più affascinante. Si tratterebbe, a suo dire del rimorso che attanagliò De Martino quando pensò alla tragica sorte toccata a Cesare Pavese, suo compagno d’avventura all’Einaudi, da lui abbandonato al suo tragico destino. Mi piace pensare che questa ipotesi possa essere quella giusta. Da qui a considerare, come è stato più volte fatto, La terra del rimorso la “Bibbia del Tarantismo”, però, ce ne passa!
Deduciamo che lei non ama particolarmente La terra del rimorso?
Non la prediligo per molteplici ragioni. In primis perché circoscrive la genesi del tarantismo nell’alto Medio Evo, che è ipotesi non fondata. Ultimamente è stata rinvenuta un’importantissima testimonianza archeologica che attesta in maniera inequivocabile la presenza del fenomeno molti secoli prima: il che avvalora, tanto la mia ipotesi che vi spiegai nella prima intervista che mi avete fatto, quanto quella di pochi altri. Trovo, poi, La terra del rimorso fortemente ancorata a una vetusta matrice etnologica progressiva di matrice sovietica. Non apprezzo il ruolo dell’etnologo schierato politicamente che inquina le prove e detta alla sua equipe le azioni da compiere, come effettuare le riprese filmate, in che direzione compiere le indagini. Personalmente prediligo la figura dell’etnologo che entra in punta di piedi sulla scena, che si sforza di trovare il nocciolo nascosto della struttura portante di una società, senza pensare di stravolgerne le basi per affrancarla da una presunta oppressione. La psichiatrizzazione dell’indagine demartiniana mi è sempre parsa molto riduttiva, così come molto retorica mi è sembrata anche la lente d’indagine gramsciana sul territorio preso in esame. Molti filmati utilizzati da De Martino per avvalorare la sua tesi non sono autentici; sono stati orchestrati a tavolino, come quello del ballo della pizzica girato presso un’aia di Muro Leccese, o la sceneggiata di Maria di Nardò, una tra le tarantate più famose da lui menzionate, la stessa che qualche anno dopo, quando venne intervistata a sua insaputa nell’ambulatorio del suo medico curante, disse esplicitamente di non essere mai stata morsicata da alcuna tarantola ma di essere stata, nonostante ciò, costretta a interpretare la parte. Affermazioni, le sue, che ben tratteggiano come si strutturò quell’indagine.
I Galatinesi come considerano oggi il tarantismo?
Credo che una buona parte di loro sia afflitta da una sorta di dissociazione culturale. Un tempo, quando il fenomeno era vivo e vegeto lo trattavano con un senso di fastidio e irrisione; ora invece, che è definitivamente scomparso dal Salento, si affannano a rievocarlo. Se da un lato ciò aiuta la ricerca, dall’altro certamente non basta!
Negli ultimi anni a Galatina un gruppo di studiosi avendo intuito l’importanza culturale del tarantismo, sta facendo di tutto, con enormi sacrifici, per preservarne la memoria. Il Club per l’Unesco di Galatina e della Grecìa salentina guidato dal presidente Salvatore Coluccia e dai Vicepresidenti Giuseppe Serra e Samantha Tesoro, insieme ad alcuni volenterosi soci, ogni anno organizza, con indiscussa maestria, la rievocazione del culto coreutico-musicale, tanto nella versione del rito domestico quanto nella versione del rito pubblico, insieme a dei seminari di studio. Molti turisti, oltre a molti Galatinesi, il 28 e il 29 giugno accorrono numerosi agli eventi, rimanendo favorevolmente impressionati da ciò che vedono, creando però, ironia della sorte, proprio ciò che De Martino detestava di più.
Cosa altro temeva De Martino?
Che tutto si tramutasse in Folklore! De Martino ha sempre considerato il folklore come un relitto, come un rottame che pesava irrimediabilmente sull’emancipazione di un popolo. Poteva tutt’al più fungere come una base da cui partire per portare avanti una missione di liberazione dai vecchi retaggi culturali che gravavano sull’emancipazione razionale di un popolo. È come se i Galatinesi nel voler recuperare il tarantismo perduto espiassero una colpa; quella di non aver colto mai, abbastanza a fondo, l’importanza simbolica e cultuale del fenomeno.
Parliamo anche della testimonianza archeologica a cui ha fatto riferimento?
Si tratta di un vaso lacedemone risalente al 750-690 a. C. custodito presso il Museo Nazionale di Atene proveniente dal santuario di Apollo di Amicle presso Sparta. Sul vaso a figure geometriche nere su fondo rosso sono dipinti dei soldati stilizzati mentre eseguono una danza circolare. La scena ritrae un grosso scorpione nell’atto di pungere la gamba di uno di questi soldati. Dalla parte opposta dell’aracnide compare una grande lyra che lega inscindibilmente la scena alla danza e alla meloterapia per alleviare i sintomi dell’avvelenamento. Non è certo un caso che il termine tarantismo richiami la polis di Taranto e le sue origini spartane, come non è un caso che il simbolo della provincia di Taranto sia proprio uno scorpione. Questo ritrovamento rappresenta un tassello importantissimo riguardo all’origine del fenomeno. Il famoso musicologo Pierpaolo De Giorgi ha citato questo ritrovamento insieme a molti altri in maniera esemplare, come solo lui sa fare, nel suo ultimo saggio intitolato La Grande Armonia. La terapia musicale in Magna Grecia e il tarantismo: eternità e bellezza, edito da Argo Edizioni, di cui consiglio vivamente la lettura.
La Terra del rimorso non ha tuttavia frenato l’entusiasmo e la partecipazione per la ricerca tarantologica, ci sembra di comprendere anche dalle sue parole!
Per fortuna no, nonostante De Martino, dopo aver pubblicato La terra del rimorso, sia subito corso ai ripari dal rischio di un ritorno all’irrazionale, dando alle stampe per la rivista «Materiali e studi di Storia delle Religioni» fondata da Raffaele Pettazzoni un contributo intitolato Tarantismo e Coribantismo, nel quale sconsigliava di fare facili analogie tra i due fenomeni. Georges Lapassade è riuscito nei suoi studi sulla trance presente anche nel tarantismo, ad andare oltre trovando un importante filone ermeneutico che lo ha addirittura spinto lontano dal Mediterraneo, precisamente in Africa, seguendo per certi versi il percorso ipotizzato dal suo connazionale Herni Jeanmaire nelle sue ricerche sul dionisismo. Insieme a Lapassade, molti altri ermeneuti del fenomeno sono andati oltre De Martino, partendo però tutti dalle sue ricerche, per abbeverarsi nel mito greco e del Vicino Oriente come Maurizio Nocera, Gianfranco Salvatore, il già citato Pierpaolo De Giorgi e Paolo Pellegrino, solo per citare i nomi più famosi.
La sua ipotesi sull’origine asclepiea del Tarantismo è allora in buona compagnia!
La correggo, non è in buona compagnia… è in ottima compagnia! Le sembrerà strano ma vorrei consigliare ai vostri lettori di avvicinarsi a La terra del rimorso, in special modo l’ultima riedizione curata da Dei e Massenzio per due ordini di ragioni. In primo luogo perché si può criticare un’opera solo leggendola e in secondo luogo perché la mia ricerca critica sull’origine del tarantismo è partita proprio da lì e in un certo senso, nonostante tutto, ne sono ancora affascinato.
Detto questo, la ringrazio molto per la sua disponibilità e per le tante notizie che ci ha gentilmente elargito!
Si figuri! È per me sempre un piacere discutere di tarantismo con voi per la vostra testata.
Il Professore Romualdo Rossetti ha presentato il suo ultimo saggio su “Ernesto de Martino e Vittorio Macchioro”, ieri sera nell’ambito degli eventi a Galatina per la rievocazione del Tarantismo.