Un’analisi della violenza quale fenomeno sociale e individuale alla luce della teoria di Athens e delle dinamiche online.
Dal Mondo – Affrontare il tema della violenza richiede molta sensibilità in quanto, si tratta di un comportamento umano molto complesso ed enigmatico.
Lonnie Athens, criminologo statunitense, ha sviluppato una teoria chiamata “Processo di violentizzazione” per spiegare l’origine della personalità violenta.
La teoria ha avuto un impatto significativo sulla criminologia moderna, ribaltando molti luoghi comuni sull’origine della personalità violenta. Athens sostiene che la violenza non è guidata da impulsi inconsci, ma è frutto di un processo sociale in quattro fasi. Le esperienze sociali vissute durante l’infanzia, in particolare la brutalità e la violenza subite, sono attivatori della predisposizione umana all’aggressività.
La teoria di Athens identifica le fasi di brutalizzazione, belligeranza, manifestazioni violente e virulenza nel percorso di sviluppo di un individuo violento. Basandosi sull’interazionismo simbolico di George Herbert Mead, un importante filosofo, sociologo e psicologo statunitense, la teoria sottolinea il ruolo delle interpretazioni e delle scelte individuali nel processo in questione.
Le persone violente possono ricorrere alla forza e alla brutalità per diverse motivazioni. Spesso ciò è dovuto alla mancanza di capacità nel gestire i propri impulsi e le emozioni, quali rabbia e frustrazione. Allo stesso tempo, la sensazione di inadeguatezza e mancanza di controllo sulla propria vita può spingere all’uso della violenza come tentativo estremo di ristabilire l’ordine.
Ma la brutalità, è mai giustificata quando si tratta di ottenere ciò che si desidera?
Forza e brutalità sono due facce della stessa medaglia, la capacità di imporsi e di ottenere ciò che si desidera. Mentre la forza è un mezzo per difendersi o superare le sfide, la brutalità rappresenta l’abuso di questa forza, spesso accompagnato da violenza e insensibilità.
Quando la forza viene esercitata in modo brutale, il risultato è solo devastazione e sofferenza per coloro che ne sono vittime.
Detto ciò, quali sono i motivi che portano le persone ad approvare l’uso della violenza, anche se in teoria riconoscono che sia eticamente sbagliato?
La violenza, seppur condannata moralmente e legalmente, continua a manifestarsi nella società in varie forme suscitando spesso reazioni contrastanti: da incredulità e impotenza a giustificazione e approvazione in determinate circostanze. La violenza è talvolta considerata come l’unica soluzione a una situazione difficile, anche se non siamo direttamente coinvolti.
Il concetto di “continuum della violenza” si riferisce alla connessione e alla continuità tra varie manifestazioni di violenza, che vanno da quelle più comuni e quotidiane a quelle più estreme e cruente. Secondo questa prospettiva, non esiste una netta separazione tra ciò che è considerato come comportamento “normale” e ciò che è etichettato come “deviante” o “patologico“.
La violenza strutturale, radicata nel pensiero comune e nelle istituzioni, è strettamente collegata a forme di violenza interpersonale e simbolica. Esistono legami e correlazioni tra le forme di violenza “ordinaria” e “abituale” della vita di tutti i giorni, quali molestie e discriminazioni, e atti criminali più gravi quali i femminicidi.
Questo concetto promuove un superamento della distinzione tra comportamenti violenti e non violenti, incoraggiando a riconoscere anche “le piccole battaglie e i genocidi silenziosi” che si verificano sia negli spazi pubblici che in quelli privati. La soglia tra normalità e devianza è in realtà fluida e dipende da fattori soggettivi e storici.
L’avvento dei social media e la diffusione dei telefonini hanno amplificato e reso più visibile il fenomeno della violenza, spesso trasformando atti cruenti in trofei da esibire online. La ricerca di visibilità e approvazione da parte di una cerchia di amici o followers può spingere alcune persone a commettere atti violenti al fine di ottenere riconoscimento e notorietà.
Questo fenomeno evidenzia ancora una volta la complessità e la pervasività della violenza nella società contemporanea, e il modo in cui essa può essere manipolata e distorta attraverso i mezzi di comunicazione digitale.
La violenza non solo si manifesta nelle azioni concrete e immediate, ma può estendersi anche al mondo virtuale, alimentando un circolo vizioso di brutalità e insensibilità che colpisce non solo le vittime dirette, ma anche chi assiste passivamente a tali mostruosità. La consapevolezza di questa interconnessione tra violenza reale e virtuale può contribuire a promuovere una maggiore responsabilità e sensibilità nell’uso dei mezzi di comunicazione e a contrastare la banalizzazione e la glorificazione della violenza nelle nostre società.
La violenza, sia fisica che sessuale, rappresenta un comportamento dannoso perpetrato contro la volontà di un individuo, con gravi conseguenze sia fisiche che psicologiche. Alcuni individui manifestano comportamenti violenti come una reazione a situazioni di conflitto, ingiustizie o competizione.
Disturbi psicologici come il disturbo della condotta o il disturbo esplosivo intermittente possono portare a comportamenti aggressivi e impulsivi. Anche i disturbi della personalità, quale il disturbo antisociale, possono essere alla base di atti violenti.
La violenza di gruppo, come nel caso di stupri di gruppo, può essere motivata dal desiderio di consolidare l’identità gruppale e di esercitare potere sulla vittima. I membri del gruppo possono sentirsi anonimi e diluire la loro responsabilità individuale nella violenza.
La violenza è un fenomeno complesso e pervasivo che richiede un approccio olistico per essere affrontato efficacemente. La teoria del “Processo di violentizzazione” di Lonnie Athens sottolinea l’importanza delle esperienze sociali, in particolare durante l’infanzia, nello sviluppo di personalità violente. Tuttavia, la violenza non è inevitabile: ognuno di noi ha la capacità di scegliere come reagire alle sfide della vita.
La violenza non è una fatalità, ma una scelta che possiamo rifiutare, scegliendo invece di coltivare la pace, uno sforzo alla volta.