Principale Politica Le donne colpevoli comunque

Le donne colpevoli comunque

Anna Lombroso

Pare, in fondo basta guardare le serie di Netflix, che siamo condannati a subire gli effetti postumi di traumi infantili, babbi ubriaconi o assenti, mamme frustrate, che autorizzano comportamenti criminali, bombardamenti su Kabul, abuso di allucinogeni, atteggiamenti persecutori.

Anche i più insospettabili a un certo momento della vita affidano a una dolente confessione a mezzo stampa o rete le motivazioni remote di certe condotte inspiegabili. Deve essere il caso della ministra Roccella che in una serie di esternazioni sui giornali mainstream e in tv nelle quali pur “difendendo” la legge 194 sostiene che si tratta del “lato oscuro” della maternità, e rispondendo a una intervistatrice che le domanda se l’interruzione di gravidanza è una “libertà” per le donne, con tono accorato risponde “purtroppo!”.

E ci fa capire di essere una “salvata”: la madre, artista anticonformista, detestava il ruolo genitoriale: “la maternità faceva orrore”, colpa imperdonabile, a quella donna inquieta “che trovava intorno a sé modelli femminili per lei invivibili, costrittivi come camicie di forza” tanto che infine “il suo corpo arrivò a rifiutarsi di accogliere l’embrione che provava a vivere dentro di lei. Ebbe alcuni aborti spontanei, e nessun’altra gravidanza”.

È ancora così arrabbiata che sua madre non abbia corrisposto a un modello ideale che avrebbe dovuto appagarsi di “mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano” che sente di essere investita della missione – che condivide con risoluti decisori che periodicamente ritengono fatale intervenire sull’impianto della 194, obiettori, maschi che non vogliono rinunciare a occupare anche quell’ultimo amaro territorio di autodeterminazione, donne bugiarde o che hanno avuto i mezzi per non affrontare quella dolorosa scelta – di stabilire canoni morali a proposito di diritti e libertà concessi alle donne.

Da anni questo tema è rientrato a forza nell’ambito di quei valori sensibili e non negoziabili esaltati da convinzioni di parte e confessionali promosse e atica pubblica con il sostegno di fantasiose teorie scientifiche a sostegno di un impianto giuridico pensato per colpevolizzare le donne, i medici che ne rispettano le scelte e invece onorare quelle degli obiettori, frequentatori solerti di cliniche “insospettabili”.

E da tre anni ormai è stato stabilito che non possiamo pretendere la proprietà del nostro corpo e della nostra salute, le decisioni che la riguardano devono essere affidate in concessione definitiva a poteri dominanti occupati militarmente dall’industria e dai custodi dell’ideologia che sostiene chi deve trarre profitto dalla medicalizzazione e dall’obbedienza a comandi che ci hanno sottratto libero arbitrio e autodeterminazione. E non può che risultare grottesco che la battaglia che viene periodicamente condotta contro la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza vanti la pretesa di tutelare genitorialità e maternità.

Quando avere figli e mantenerli è diventato un privilegio per pochi, quando gravidanza e parto sono atti a alto rischio, quando da giorni leggiamo le confidenze di tante donne umiliate e offese: «Rimasi sola cinque giorni, aspetto un altro figlio e non voglio rivivere quell’incubo». «Anche io sono stata lasciata sola dopo travaglio e cesareo, stremata e dolorante». Stranamente non è stato trovato uno stilema inglese per definire la “violenza ostetrica” dopo il successo del rooming in, che manda in estasi la nostra Roccella, nella sua funzione di delega aggiuntiva al privato domestico, in modo da alleviare la macchina sanitaria grazie alla totale responsabilizzazione delle madri, stanche, dolenti, sofferenti, aiutate però, è lei a dirlo, dalle nuove frontiere della telemedicina.

Eh da 45 anni si continua a proclamare che l’aborto è un diritto, una libertà concessa, una prerogativa riconosciuta senza gran convinzione in seguito ad anni di lotte di donne che sapevano bene che invece si tratta della riammissione alla cerchia dei non colpevoli, della restituzione della dignità a quelle considerate reprobe, diventate criminali condannate alla pubblica riprovazione per aver compiuto una scelta amara, sofferta e dolorosa diventata necessaria per via di un contesto sfavorevole che di tempo in tempo si è ulteriormente deteriorato.

La soluzione promessa dall’establishment è sempre la stessa, affidarsi al mercato incarnato dal terzo settore cui viene delegata la gestione di cura e assistenza in ossequio ai comandi del sistema privato, finanziato dallo Stato, dalle risorse del Pnrr, da noi, che corre l’onere di essere buone madri, aiutate dalla possibilità di rinunciare a talenti e vocazioni, dall’opportunità di combinare in cucina davanti ai fornelli, lavoro e attività domestiche.

È così radicato ormai l’odio per la libertà che la si condanna comunque, soprattutto quando è espressione tormentata di libero arbitrio, di scelte compiute responsabilmente malgrado il loro carico di patimento. È uno dei modi in uso per condannarci alla vergogna, alla penitenza e alla deplorazione sociale.

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