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Maria Pia Latorre recensisce Il mare beve me stesso di Francesco Cagnetta

Arcipelago Itaca, pp. 95

Tutta la poesia dal Novecento in poi è da considerarsi come continua riflessione e rielaborazione del male della storia e della ferita che essa ha prodotto nel mondo. La caducità dell’esistenza e la precarietà del vivere, temi universali e già nel Romanticismo trattati con esiti straordinari, si trasformano ai nostri giorni nel senso di un ripiegamento personalistico, di un accartocciamento della materia storica in individuali sarcine che ne mettono in evidenza i plurimi risvolti.

Nella silloge ‘Il mare beve me stesso’, di Francesco Cagnetta, il contenuto è subito dichiarato ed è un filo che corre lungo tutta la raccolta ad inchiodarci su una domanda ferma e mobile di dolore.

Molte le verità sottaciute dai più; invece illuminano le scomodità, i rovelli, poi, si sa, ognuno segue il proprio istinto, il proprio fuoco, nella ricerca.

Ed è proprio dai diversi  ‘impasti’ interiori  che vengono fuori le originalità. Scatta  in ogni poeta una sorta di meccanismo di difesa del proprio ‘territorio ‘ poetico, della propria identità, del proprio grido di esistere rivolto al mondo, e Francesco Cagnetta ha circoscritto il suo nella morsa del dolore, annegando ne ‘Il mare beve me stesso’, opera pubblicata nel 2021, con Arcipelago Itaca e già all’attenzione del mondo letterario.

La raccolta, con l’originale e acuta introduzione di Vanni Schiavoni, è suddivisa in quattro sezioni; la prima, che  dà il titolo alla raccolta, è seguita da ‘La conoscenza del dolore’, nella quale si si dichiara aperta la ricerca, o meglio, la sintesi della ricerca; in ‘Dolore familiare’ si passa a individuare, nominare, con quel potente gesto che è l’appropriarsi attraverso il coraggio di chiamare per nome, di chiamare in causa fatti cose persone; nella sezione conclusiva, ‘Verbo chiuso’, la più breve delle sezioni, vi è il congedo, un congedo ragionato, cortese, mai sopra le righe.

Si tratta di un lungo viaggio nelle manifestazioni del dolore, nel suo trasformarsi all’interno di  coordinate spazio-temporali che lo caricano, in tal modo, di realismo e di immediatezza. Un lungo racconto che ripercorre dall’interno un’esperienza, poi un’altra e un’altra, vividi tasselli a comporre un unico mosaico nel quale il poeta presta se stesso al viaggio “coltivo il corpo come una foresta/ inondo di acqua i vasi dei pensieri/ taglio rami che si avvicinano al dolore./ Scavo sotto coscienza una corteccia/ immaginaria. Tratto col frutto./ Pianto nuove domande”.

Il poeta è in dialogo con la natura, è nel mondo vegetale, ha in sé la lucreziana certezza del ‘De rerum natura’, l’ha introiettata e riplasmata. Superando il postmodernismo, utilizza elementi di capovolgimento, cambi repentini di prospettiva, anche se nella predilezione di ambienti chiusi e circoscritti quali quello domestico (riecheggia l’alta poesia di Paolo Polvani, maestro nel far parlare le cose domestiche). Dalla 19. conoscenza del dolore: “Una punta di dolore si presenta,/ rasenta le pareti, si biforca/ nel corridoio,/ cresce forte e indisturbata/ in questa scatola disabitata”. La musicalità della rima allevia in parte il peso, ma crea delicati contrasti che attenuano la materia, che mai cambia nome o si affida a sinonimi, è sempre e solo ‘dolore’.

Ad  accentuare il carattere di chiarezza della silloge la costante presenza di epigrafi in esergo alle liriche, che ne delimitano subito l’ambito, così che il lettore possa compiere lo stesso viaggio o ne abbia l’illusione, poiché alla fine tutto rimane ben celato e bisogna scoperchiare, grattare…

Perché è proprio al mare che il poeta si affida tanto da farsi bere? Che bisogno ne aveva?

Certo è che l’ha masticata tutta la sofferenza, Francesco, non ne fa mistero. Ma il mistero c’è ed è oltre le parole, oltre il dichiarato. E allora è poesia.

Una delle occorrenze della silloge è ‘gola’, parte anatomicamente deputata all’urlo, ma in Francesco si tratta di un urlo soffocato, e ben lo dimostrano questi versi: “io che aspettai prima di andare/ che questo dolore si placasse/ e che di notte tutto tornasse nella forma/ nel gesto tondo della norma”, credo che ‘nel gesto tondo della norma’ sia la cifra di questa silloge, la sua misura dichiarata. Ma sappiamo bene che la poesia è oltre il dichiarato, questo il suo immutabile mistero.

Cosa c’è oltre? Un animo schietto, “allo specchio vedo solo sembianze/ un trofeo di mancanze”, che non risparmia durezze a se stesso per assumere il rigore come abito di ricerca.

Ma quanto il poeta è afflitto dal dolore? Quanto basta per mettersi sulle tracce della vita; ‘Il mare beve me stesso’ è il diario del dolore, ovvero alla ricerca della vita.

Buon cammino!

 

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