Principale Cultura & Società Maria Pia Latorre recensisce “Cucine abitabili” di Paolo Polvani

Maria Pia Latorre recensisce “Cucine abitabili” di Paolo Polvani

Sin dal titolo e dalla copertina questa raccolta incuriosisce e attrae per immediatezza. Altra caratteristica che invoglia subito il lettore è la mancanza di introduzioni-prefazioni-motti-citazioni, un’assenza di filtri apprezzabile, segno di piena sicurezza dell’Autore nel volere mettere i propri versi immediatamente nelle mani dei lettori. Certo, Paolo Polvani possiede strumenti tecnici affilati e li adopera magistralmente per avvincere alla lettura. Lo si comprende da subito, sin dal titolo della prima poesia: ‘Cosa accade alla casa quando esco sbattendo la porta’, dove oggetti inanimati – ma con un’anima poetica – dialogano con le parole circa la vita degli abitanti della cucina.
È immediatamente chiara la sobrietà della ricerca, non tesa a sfidare o cercare “vette sublimi”, né ad attendere l’estasi per afferrare l’estro poetico e tradurlo in versi aulici, ma che si svolge in una casa, un ambiente familiare luogo di sintesi perfetta tra le piccole e le buone cose, in una fusione pascolo-gozzaniana che promette subito di travalicarne i limiti e che lo fa mirabilmente.
Avendo il poeta come interlocutori degli oggetti, la poesia assume carattere di forte descrittività, ma ben finalizzata al fitto dialogo, “la cosa sta lì, nuda e presente,/ indossa un nome come s’indossa/ un chiarore”; e così riusciamo bene ad immaginare “la poltrona che trattiene il vuoto della forma”, “la pantofola, cerbiatta timida prossima alla consunzione”, “le tubature… che emettono brevi gorgoglii, guaiti appena pronunciati”.
È una poesia delle cose, questa di Paolo Polvani, che dà spazio ad oggetti interlocutori, mai reificazione ma potenziamento e amplificazione dei versi, attraverso questo originale canale messo a punto dal poeta, fatto di materia e di fisicità. Un connubio antitetico e vincente che si carica in certi casi di ironia, in altri di delicata nostalgia, di ricordi assopiti, di immaginazione.
Stupore continuo nel lettore per la fervida immaginazione che non si accontenta di costruire similitudini e metafore, bensì qui l’oggetto è ridisegnato e assume su di sé più connotazioni, tante quante l’abilità del poeta riesce a costruirne. Così assistiamo alla ricreazione di oggetti-pensieri: “l’ala di maggio ti si appiccica addosso”, e oggetti-emozioni: “l’euforia di una pioggia sghimbescia”.
Per riuscire in versi così robusti è necessario saper scrutare l’oggetto da tutte le possibili prospettive e poi riuscire a compiere un salto metafisico per immaginare altre prospettive, come “il perimetro delle calze”, “i calendari e le finestre, (che) rosicchiano il vuoto, (e) si librano in un percorso di foglie”.
Poesie fitte di emozioni, che stordiscono per bellezza e grazia.
In tal modo già alla terza lirica c’imbattiamo in un cameo, “I tuoi anni”, dedicata alla madre, figura che più volte torna nella raccolta, non solo come esperienza affettiva, ma come simbolo di vita e come interlocutrice a cui la voce poetica porge domande estreme sull’esistenza.
Il poeta immagina gli anni dell’anziana madre “come formiche in fila indiana/ sul tavolo di marmo/ della cucina”; sono lì, in fila come i grani di un rosario, e camminano come laboriose formiche fino a raggiungere pericolosamente i bordi del tavolo, dove c’è il vuoto che potrebbe risucchiarli. Mi sovviene come tutti i bambini, nel processo di crescita durante i primi anni di vita, abbiano una forte relazionalità con i confini degli oggetti, e il tavolo di casa è uno dei primi che ‘studiano’ per sviluppare il senso della spazialità e della profondità; io personalmente ho vivi e precisi ricordi in tal senso; così è probabile che il poeta, nel suo scavo interiore, abbia attinto a tale esperienza che riporta immediatamente al grembo materno.
Subito, poi, si percepisce il baratro prodotto dalla fine stessa del tavolo come correlativo oggettivo di morte. La poesia, essenziale nelle due quartine, conclude con la constatazione che tutto ciò ci procura una sensazione di freddo. E quel freddo lo si sente davvero addosso, sotto “la luce del neon/ (che) spande un sentore d’inverno”.
Mi soffermo, ora, sul verso di un’altra poesia che mi ha impressionata, ‘Se giri tra le dita una parola’. Qui viene a delinearsi una poesia che verseggia su cose e nomi ricercandone tutti i nessi possibili, ma che sempre hanno “al fondo una palese incongruenza ma tutto all’interno/ di un equilibrio in continuo assestamento”. Così come troviamo meravigliosamente espresso in ‘Cose che avvengono’.
‘Cucine abitabili’ sembra corrispondere ad una necessità di risposte e attraverso le domande emerge il senso della sezione che dà il titolo al volume, stare aggrappati ai desideri, alle paure, e in primis alla paura delle paure, quella dell’ignoto che la morte reca con sè.
Leggiamo da ‘I disagi del viaggio’: “erano in conto i disagi del viaggio,/ le frenate improvvise, lo spaventoso fragore/ delle gallerie, tutto quell’andare/ di asfalti luccicanti”, là dove i continui enjambement ci fanno vivere in prima persona il procedere a singhiozzi del treno, la vertigine che ci procura il suo movimento e che ci apre alle descrizioni dei paesaggi che di lì a poco vivremo.
Si potrebbe considerare ‘I disagi del viaggio’ lirica introduttiva alla seconda sezione della silloge, ‘Paesaggi commestibili’, dove è la natura che regna sovrana ed è talmente buona da considerarsi “da mangiare”.
Bellissime le liriche da gustare, da ‘I peschi fioriti a febbraio’, a ‘I gerani’, a ‘Rami’, a ‘La malva’, e tra queste ‘Il confine del vento’, capolavoro testamentario in cui l’Autore vorrebbe “ingoiare la terra” ed “essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere lo sguardo/ il suono, il confine del vento”.
Tante le sequenze iconografiche della sezione, scattate e messe lì, quasi in un immaginario album fotografico compilato per tracciare un segno nella memoria umana e poetica. ‘Cucine abitabili’ è un libro di poesie da amare e “masticare piano”.

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