Principale Attualità & Cronaca Perché Taranto non è e non può essere capitale della cultura

Perché Taranto non è e non può essere capitale della cultura

di Rosaria Scialpi 

Taranto ha nutrito il sogno, o forse sarebbe meglio dire l’illusione, di diventare capitale della cultura. Un titolo ambito, non solo per il premio pecuniario di un milione di euro, ma anche -e probabilmente soprattutto- per la pubblicità positiva che ne ricavano i vincitori.

Comprensibile, per una città che salta costantemente agli onori della cronaca per vicende giudiziarie legate al siderurgico e all’inquinamento, il desiderio di dare di sé un’immagine diversa, pulita. Il problema è, però, che i “sogni son desideri”, ma nella realtà essi non si realizzano mediante l’intervento di fate turchine, alberi magici e animaletti pronti ad aiutare con ago e filo. Nella realtà, infatti, se la giunta comunale di una città desidera ardentemente porsi a capo di una nazione, anche se solo metaforicamente, come capitale della cultura, il minimo che debba fare è dare centralità alla cultura. Ma non è questo il caso di Taranto.

I fattori che rendono evidente quanto poco sia tenuta in considerazione la cultura in questa città sono plurimi e qui ne verranno esaminati solo alcuni.

A Taranto manca, anzitutto, una visione a lungo termine, frutto di una conoscenza del territorio e del suo tessuto connettivo -i cittadini-, dei quartieri, in particolar modo della difficile realtà delle periferie, dei limiti e dei punti di forza della geografia della città e della storia e della cultura locale.

Amministrare un territorio, infatti, richiede una progettualità, qui mancante da diverse amministrazioni, che tenga conto di quanto appena elencato. Come si può ritenere che candidare Taranto assieme alla Grecia salentina sia stata una buona mossa? Ebbene, non lo è stato né a livello di marketing né in altri campi e ha dimostrato, da parte non solo dell’amministrazione tarantina, ma anche da parte di quella degli altri territori chiamati in causa, una mancanza profonda di lungimiranza e di padronanza della storia. Taranto e la Grecia salentina hanno poco in comune e lo si può evincere prendendo in considerazione lo sviluppo topografico e storico delle due comunità, la lingua profondamente differente e le vicende storiche che raramente le hanno viste interconnesse.

Proprio la lingua, il dialetto tarantino, sarebbe invece qualcosa su cui varrebbe la pena concentrarsi.  Se esso, infatti, genera dispute fra linguisti, su quale sia l’asse più corretto a cui farlo appartenere (salentino, alto-meridionale/napoletano, pugliese o a sé stante), ci sarà una ragione. Ecco, questa è una peculiarità su cui il territorio potrebbe investire, attirando anche studiosi della lingua. Ma se ciò non avviene non sorprende. D’altronde, è quasi un decennio che Taranto è sprovvista di un corso di laurea di stampo umanistico.

Chi può, dunque, in assenza di un’università umanistica del territorio, della città, farsi carico di questa responsabilità? I Tarantini devono sempre vedere la propria città e la propria cultura studiata da altri? Non che in questo ci sia nulla di male, ma sarebbe ora di smettere di delegare la salvaguardia della cultura e della storia cittadina.

A ciò va aggiunta l’alta percentuale di studenti che si trasferisce e/o studia altrove. Spesso, però, non si tratta di una scelta, perché la scelta implica la presenza di un’alternativa. Gli studenti e le loro famiglie sono allora costrette a sobbarcarsi costi di trasferimento e di mezzi che, se a Taranto non fossero state chiuse i corsi di laurea umanistici, avrebbero potuto, probabilmente, risparmiare. Per non parlare dei tempi di studio ridotti e delle condizioni di viaggio fatiscenti a cui sono costretti gli studenti e le studentesse pendolari.

Se si tiene conto del fatto che Taranto ospita il Convegno della Magna Grecia, ma che i suoi abitanti non possono studiare sul territorio e valorizzarlo, proponendolo come alternativa all’industria inquinante, ci si rende conto della grande contraddizione insita in questa faccenda.

Altro tassello importante da tenere in considerazione è lo stato di abbandono in cui versano le periferie. Vivere in periferia, a Taranto, significa vivere ai margini della società, portando il peso della fame, della solitudine e dell’ingiustizia della forbice sociale.

Se nelle periferie vi è un alto tasso di dispersione scolastica e di disoccupazione, non si può di certo pretendere che i cittadini siano pronti a proiettarsi verso il domani. I palazzi si costruiscono dalle fondamenta. Partendo dalle scuole.

Correva l’anno 2017, quando alcune delle scuole del Quartiere Tamburi furono inaspettatamente chiuse e i bambini e le bambine costretti a turnazioni assurde, massacranti per la loro età e sopprimenti gli spazi di libertà e creatività. Scuole costruite a ridosso di collinette ecologiche che di ecologico non avevano nulla. Studenti e studentesse, intere famiglie, che per settimane hanno brancolato nel buio, chiedendo che il diritto allo studio venisse rispettato. Non c’era il covid-19, non c’era il lockdown, ma ai Tamburi non si poteva già andare a scuola e l’aria era irrespirabile, tanto che, già all’epoca sarebbe stato opportuno indossare delle mascherine. Le scuole sono state riaperte, ma le collinette sono ancora lì. Per Taranto non c’è pace né giustizia.

Mancano, in periferia, gli spazi ricreativi, sportivi, di aggregazione, dove far nascere e diffondere idee e cultura. Come ci si può sorprendere, dunque, se dove mancano le istituzioni, dilaga la criminalità che va a riempire i vuoti da esse lasciati?

Si chiede ai giovani di rimanere, ma se non si permette loro di conoscere la bellezza, cosa avranno negli occhi, una volta diventati adulti? Se, sin da piccolissimi, sono costretti a misurarsi con la malattia e con la morte, come si può pretendere che rimangano? Come si può chiedere loro di cambiare le sorti di una città che, giorno dopo giorno, diventa sempre meno ospitale per loro, sempre meno a misura di giovane? I giovani sono stati definiti la generazione del cambiamento climatico e della svolta green, ma a Taranto questo sembra, non solo irrealizzabile, ma impensabile.

Le poche iniziative culturali della città, degne di questo nome, e non qualche piccola, seppur utile, fiera, nascono, nella maggior parte dei casi, per iniziativa di privati cittadini. Ma a Taranto diventa difficile fare rete. Collaborare, in una città in cui emergere sembra impossibile e da cui tutti sembrano scappare, diventa arduo.

Si chiede ai cittadini di fare comunità. La comunità la creano i politici. Politica, che per etimologia deriva dallo sposalizio fra la parola polis (città) e da quella sottintesa téchnē (arte), significa allora incarnare lo spirito di una città. Ma Taranto è una città dallo spirito morto o quantomeno addormentato. Lo dimostra benissimo l’astensionismo di queste ultime elezioni comunali. Gli uscenti sono stati confermati, ma come? C’è stata davvero una battaglia politica? Il centro e la destra sono stati davvero avversari? La verità è che, come veniva detto precedentemente, mancava da parte di ogni fazione una progettualità.

Taranto capitale della cultura lo è stata sicuramente, ma in un passato lontano, oggi reso mito. Non siamo più gli Spartani di un tempo, ci siamo assopiti. Non ospitiamo più Bodini, Quasimodo o Ungaretti entusiasti ed estasiati dalla vista loro offerta dalla città. Chiunque giunga qui in visita, oggi, esordisce sempre dicendo: “Taranto sarebbe bella, peccato che sia inquinata e sporca”.

Incuria. Questa la parola chiave con cui descrivere lo stato in cui versa Taranto. E non è vero che qui non si crea più cultura. I cittadini, quelli liberi e non aggiogati al potere, la fanno, ma a quale prezzo? Quanta fatica per emergere? Ma, se anche fosse vero che a Taranto non si generano più grandi alberi della cultura, non sarebbe forse colpa di quei semi non fertili gettati da chi di dovere?

La bellezza nasce solo dove trova terreno in cui attecchire, dove ci sono cieli abbastanza azzurri e privi di ciminiere per poter riverberarsi nell’aria con tutta la sua potenza, dove ci sono orecchi pronti ad ascoltarne la voce. Non a Taranto, non ora.

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