Infanzie medievali.
La concezione del fanciullo nell’Età di Mezzo
di Claudia Babudri
Nella letteratura dottrinale medievale le varie fasi della vita umana non sono concepite come un flusso evolutivo continuo ma come capitoli distinti dell’esistenza. Al chiudersi di uno, se ne apre un altro completamente svincolato e differente dal primo. “Venendo una età, una altra muore” affermava a questo proposito sant’Agostino.
Il tempo dell’imperfezione, a metà strada tra Inferno e Paradiso, era quello dell’infanzia. Alla stregua di calvi, magri, obesi e delle donne, i bambini non vengono ammessi nella Città di Dio di Agostino in quanto tributava ai fanciulli solo vizi, capricci e peccati. Più dei maschietti erano penalizzate le bambine: viste come “fanciulli mancati”, erano considerate “maschi menomati”. Ovviamente non tutti la pensavano così: Beda e i santi Colombano e Benedetto esaltavano la mitezza e l’innocenza tipiche della fanciullezza.
La colpevolezza morale dei bambini poteva essere corretta dai genitori solo seguendo il sentiero cristiano e con severa metodologia, basandosi sui dettami delle Sacre Scritture. Il Libro di Siracide, contenuto nella Bibbia, invitava i genitori a “usare spesso la sferza” perché, in sua assenza, “un cavallo senza freno diventa ostinato, un figlio troppo libero diventa testardo”. Anche San Paolo e Gregorio Magno erano dello stesso parere a patto che la correzione della prole non scadesse nella violenza più efferata.
In generale, chiunque cresceva al di fuori dell’educazione cristiana rappresentava un abominio, una mostruosità. La repulsione verso i fanciulli fatali, bimbi mostruosi concepiti al di fuori della grazia divina, era così viva nel Medioevo da essere esorcizzata attraverso l’arte e la letteratura. Tra i pueri monstra rientravano anche i bambini in grado di parlare prematuramente. Sospettati di essere changelin, figli del demonio, erano mal visti dall’opinione pubblica. Verso la fine del XIII secolo, Jacopo da Voragine nella Leggenda aurea descrisse il caso di una bambina nata senza occhi, una delle tante creature mostruose che animavano l’immaginario medievale. Tra questi l’uomo mastino concepito da una vergine e un cinocefalo, metà uomo e metà canide. I bambini nati da questa unione erano selvaggi al pari di coloro che, abbandonati in natura, venivano cresciuti e allattati dalle bestie. È il caso dell’homo ferus, colui che regrediva crescendo lontano dalla civiltà. Esemplare è il caso del Perceval narrato da Chrétien de Troyes. Perceval cresce in natura, allevato dalla madre, lontano dalla corte e dai suoi pericoli. Il giovane, fisicamente forte, crebbe mentalmente tardo. Per questo motivo, la società in cui cercò di rintrodursi da adulto, lo considerò sempre un selvaggio nonostante le imprese eroiche compiute.
In generale, una rivalutazione dell’infanzia si inquadra tra il XIII e il XIV secolo, parallelamente all’enfatizzazione della fanciullezza di Cristo e di Maria. Questo processo, durante l’Umanesimo e il Rinascimento, verrà incentivato attraverso il maggior l’interesse verso questa particolare stagione della vita.
Redazione Corriere di Puglia e Lucania