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Maria Pia Latorre recensisce ‘Mr me, di Maurizio Evangelista’

Vncitore della 7^ edizione del Premio ‘Arcipelago itaca’ per la raccolta inedita di versi – non opera prima, Mr. Me, è la terza silloge di Maurizio Evangelista, che vede felicemente la luce dopo ‘Suonatore di corno’ (La Vallisa, 2010) e ‘La città inventata’ (Secop edizioni, 2015).

L’essenziale plaquette poetica è costituita da un compatto apparato di poesie solidamente definito in una struttura suddivisa in stanze d’albergo, topos che ci porta alla memoria l’immediato accostamento alle stanze poematiche della poesia antica, da Pindaro a Orazio alla poesia quattro e cinquecentesca (tra cui spiccano le ballate di Poliziano e le canzoni di Lorenzo de’ Medici).

Nella canzone, le stanze sono state un’istituzione tra le strutture metriche del genere poetico, con cui tutti i poeti fino alla fine dell’Ottocento, cioè fino al pre-verso-libero si sono confrontati, compresi Carducci e D’Annunzio. Dunque scelta dotta quella di Evangelista che, attraverso tale omogenea struttura (in tutto 48 stanze, più una di apertura e una di chiusura), ci indirizza verso una lettura rigorosamente cadenzata, che fa da preciso contraltare al materiale incandescente e magmatico contenuto nei testi.

A noi immaginare lo svolgersi del componimento in un hotel (super-lusso o pensione ad ore, non importa), con quattro rampe di accesso ai quattro piani, o forse no (non ce lo dice l’Autore), sicuramente  preceduti  da un ‘check in ’ d’ingresso e comprensibilmente chiusi da un ‘check out’’ di commiato, per un totale di cinquanta liriche.

Stanze d’albergo che non rimandano soltanto al familiare ambiente di lavoro del poeta, ma che ci ricordano immediatamente le stanze del romanzo di scuola oulipiana di Georges Perec, ‘La vita, istruzioni per l’uso’, come anche ci rammentano il topico labirinto di Borges, o, più arditamente, le giornate di un moderno Decameron, nella necessità-virtù di dar ordine e definizione ai versi. Difatti l’apparato, in toto, mostra una sensibilità squisitamente minimalista, che appare tangibile finanche nella veste grafica dell’opera.

La stanza assicura rigore, ordine d’analisi, è uno spazio chiuso che si presta ad una razionale vigilanza, la stessa che viene richiesta, da contratto, a Maurizio Evangelista nel suo ruolo lavorativo. La stanza come luogo asettico, setting ideale per  esperimenti dell’anima, scena del crimine umano, dis-unità spazio-temporale che si fa chiave d’apertura al verso.

Ma per una ricerca così fortemente (e quasi dichiaratamente) scientifica occorre un osservatore esterno, un ‘mister m.e.’,  da cui il poeta prende immediatamente le distanze perché non si confonda con lui; che è il suo stesso acronimo purché svolga il suo dovere e impersoni il  ruolo per cui è stato ideato: rendere al meglio la sua funzione di rigoroso descrittore di fenomeni. E qui il fenomeno è ben chiaro e sapientemente reso dalle parole, dalle pause, dagli spazi.

Le stanze sono in ordine numerico progressivo; ancora rigore matematico, ma con dei posti  mancanti, ‘vuoti’ numerici presenti con una certa regolarità anch’essi, assenze/presenze messe lì a delineare un mistero. Sono versi celati quei vuoti? Un fondo del fondo dell’orizzonte poetico di Maurizio Evangelista? Conoscendo un po’ l’Autore, direi di sì.

Ancora ci viene in soccorso Perec, con ‘La vita, istruzioni per l’uso’, dove l’autore narra la vita dei diversi abitanti del diciassettesimo arrondissement di Parigi, in uno stabile a cui manca la facciata anteriore e dove si procede secondo uno schema di gioco preciso, quello del movimento del cavallo negli scacchi, con, inoltre, una lunga serie di giochi combinatori disseminati nei diversi appartamenti, permettendo al lettore-visitatore di soggiornare in  novantanove stanze (in realtà dovrebbero essere cento, secondo la regola matematica applicata); e stessa inaspettata trasgressione troviamo nella struttura della plaquette  ‘Mr. me’.

Presto c’imbattiamo in un altro mistero, mancano tutti i numeri pari. Perché? Ciò non  sorprende per la sorniona impenetrabile enigmatica natura di Maurizio, che qui ne ricrea il particolare fascino.

Dunque siete pronti a entrare? Siamo nella hall, in attesa del check in, ci guardiamo attorno per entrare in contatto e prendere confidenza con un mondo a noi estraneo (non è così che facciamo quando iniziamo a leggere poesia?) e già assistiamo ad uno sdoppiamento che si avvita su se stesso, poi si dispiega per poi riavvitarsi nuovamente nel breve spazio di appena otto versi. Brevissimi. Mr. me non è pseudonimo, ma eteronimo, metterà la faccia di Maurizio Evangelista, andrà a dormire per lui e si risveglierà per lui o viceversa. L’Autore ne soffre il suo addomesticamento, in un plurale: “oggi che potremo essere”, lo chiama a sé, amico indeciso, ma suo ‘alter’ di fiducia; e di questa fiducia è consapevole, tanto da concludere: “non mi guarderò neanche”. Un verso spezzato che si può gustare interamente solo nella lettura d’insieme della lirica.

A partire dalla stanza 101 inizia un formidabile viaggio… in una stanza. Il mito americano è un nervo scoperto, tallone d’Achille per Evangelista che nella stanza 101 recita: “ti voglio Norma Jeane/ dentro una decapottabile del ‘56/ come se fossimo a New York… ti bacio Andy Warhol/ trentacinque in una stanza”, e nella stanza 111: “lui è King Kong a Manhattan/ io sono Jessica Lange/ con l’asciugamano tra le mani/ mi riprendo felice/ sull’Empire State Building./ sei bella, mi dici,/ con le tue tette americane/ e quell’Oscar che vincerai domani.”

Molti i virtuosismi stilistici presenti nell’opera (di suono, di figura, fino ai chiasmi e ai calembour), ma sopratutto di contenuto. Uno per tutti, nella borghesiana stanza 115, assistiamo ad un gioco infinito di rimandi e opposti che si richiamano l’un l’altro: “se sbirciassi da questa stanza/ una stanza simile a questa/ sono certo che ogni cosa sarebbe la stessa/ ma in modo diverso./ … un libro aperto che non ho mai aperto/ un paio di calzini bianchi sulla sedia/ gli stessi della biancheria sporca./ mentre parlo ad alta voce/ mi chiudo la bocca./ mentre sfioro il mio braccio destro/ ho una mano sul mio braccio sinistro./ e nella stanza nessuno/ solo il mio riflesso/ mentre dal vetro mi busso alla porta.

Come si può gustare in questi versi, un modalità poetica incisiva, originale e insostituibile quella di Evangelista, che prende le distanze da sentimentalismi ma ci fa vivere a forti tinte sentimenti e frammenti di identità fino al parossismo, con un valore portante, la distanza: “va tutto bene/ finché mi sei distante.” (stanza 125). E non è lo sdoppiamento la forma madre di tutte le distanze? che l’Autore decide di isolare anche fisicamente nella pagina.

Molte stanze, come la 225 hanno alti tratti di oniricità, con spostamenti spazio-temporali tipici del sogno, con atmosfere ultraterrene, dove, come in un regno di trapassati, i nostri cari ci parlano e ritornano e poi vanno altrove e ancora ritornano, perché el tiempo no para . E, lungo il corridoio, poco distante entriamo in una stanza piena di alberghi, amanti, treni, turisti e navi crociere, ciò che è il mondo concreto dell’Autore. Queste figure entrano come comparse o protagonisti, passando dal mondo di Evangelista a quello di Mr. Me che li osserva e ne calma l’inquietudine.

Importante come viene trattato nelle liriche il tema della relazione materna, direi presente nella quasi totalità delle poesie, ma in particolare nelle stanze 129, 301 e sopratutto nella stanza 227, dove spicca uno sbalorditivo e moderno ritratto materno attraverso fotografie di famiglia; quelle, infiocchettate da consumati nastri riusati, delle raccolte antiche, presenti in ogni casa,  accanto a quelle, più recenti, delle gallerie dei telefonini: “mia madre fa ciò che le dico e poi/ scatta una di quelle foto che non stamperà mai”, versi potenti e taglienti che penetrano con l’esattezza di una lama nell’intimità di ognuno, fino al parossismo dell’ultima strofa: “le chiedo il perché e mi risponde,/ che alla fine di una festa/ si fa sempre una foto di famiglia”.

Una modalità poetica che stordisce e annichilisce; devi metterci un po’ di tempo a riprenderti,  perché travalica con estrema facilità il livello di coscienza e raggiunge le porzioni più fonde e oscure di noi.

L’alone di mistero che sprigionano questi versi ci porta a chiederci: ma chi è Maurizio Evangelista? Ed è proprio il nascondimento continuo, che occhieggia da ogni porta socchiusa a reclamare uno svelamento. Quasi una ricerca catartica.

Nella stanza 129 è un m.e. bambino o Peter Pan a parlare: “non ho figli della mia età/… sarò sempre un bambino/ affacciato all’età di qualcun altro”; e questi versi denotano la sapiente scelta dell’Autore a favore di un profilo speculativo rigoroso, che poco spazio lascia al lirismo, all’intimismo o alla spasmodica  ricerca estetica; qui si assiste ad un movimento interiore che, in modo pacato e naturale, tende ad interrogare la realtà  e a coglierne tutti i suoi aspetti, sia quelli di infelicità che quelli di serenità.

Si arriva alle stanze 301 e 303, a mio sentire fulcro dell’opera, dove scorrono momenti  dell’infanzia, ma che sono soltanto flash molto parziali, avvolti dal mistero del non detto.

Unica certezza un giro di perle che somiglia al bianco delle conchiglie, su cui tante volte gli occhi di bambino si sono posati, molto più di una metonimia, ben oltre quello che può rendere lo spessore di una figure retoriche, qui si va verso una poesia totale, quasi da psicoanalizzare per il denso suo portato.

Incastonata nell’edificio, nel suo ventre più profondo la stanza 303, per me la più intima, dove assistiamo finalmente (o forse no) ad uno svelamento: “in questa stanza sono nudo”; e in pochissimi versi è tracciata una precisa risoluzione del concetto di mancanza, sentimento/stato d’animo che spesso ci coglie e che difficilmente riusciamo a definire, qui abilmente commisurato a briciole di colazione, un vero e proprio correlativo oggettivo. In questa immagine tutto il buono di ciò che è da poco accaduto e che ora non è più, ma che di nuovo vorremo per noi. Basterà attendere domani, se ci sarà concesso.

È nel ‘check out’ finale che assistiamo nuovamente al trionfo dei numeri: 24, 12, 60… disseminati  senza un’apparente logica: “24 non sono bravo/ con gli addii/ con 12 niente/ … passa senza i 60/ voltami l’aria. Che fretta hai di andare?” , ma a questo punto dell’opera siamo entrati in sintonia con l’Autore e resteremo ad ascoltare, senza porre domande, con la gioia di assaporare poesia.

Buon volo a questo grande e puro Poeta.

Senza indugi, perché “la notte non ti vuole indietro/ e il giorno di cosa potrebbe aver paura.

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