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La pace come utopia

In tutto il mondo in queste settimane si invoca la Pace; la guerra in Ucraina voluta dalla Russia per meri calcoli geopolitici, economici e di potere con le sue nefandezze, orrori e stragi ci ricorda il raccapricciante olocausto nazista.

Persone inermi uccise senza un perché, città e case distrutte, milioni di profughi che cercano di salvare la loro vita, gente e militari  che saltano per aria falcidiate dalle mine, la strage di malati  negli ospedali distrutti, la tremenda strage di donne, bambini ed anziani impossibilitati a difendersi pesano come un macigno sulla coscienza di un uomo che da Zar di tutte le Russie si è trasformato in un pazzo scatenato e megalomane  il cui agire forsennato ha determinato un grave stress  politico con tutte le nazioni del mondo e con quelle europee in particolare.

Alla base di tale comportamento da squinternato vi è la convinzione di poterle sottomettere e soggiogare privandole delle preziose quanto indispensabili forniture di gas, del grano e di altri beni made in Russia. Tutto questo è antistorico ed estemporaneo, in antitesi ed in profondo contrasto con gli ideali di pace che tutte le Nazioni europee e la stragrande maggioranza delle nazioni americane, asiatiche ed africane propugnano e sostengo ormai da oltre 50 anni. In tutti gli atti costitutivi del mondo si invoca la pace come bene universale, come condizione sociale indispensabile per promuovere la convivenza civile tra i cittadini, la pacifica coesistenza e collaborazione finalizzata alla crescita umana, sociale, culturale ed economica del proprio paese.

Anche la Chiesa cattolica celebra ogni anno nel mese di gennaio  la giornata mondiale della pace, lo fa con forza e convinzione per demonizzare un mondo che sembra già entrato «nella terza guerra mondiale che si combatte a pezzetti», stando alla sorprendente denuncia di papa Francesco. In concreto, tra crimini, massacri, torture, distruzioni e il proliferare di armamenti nucleari la pace non trova luogo dove  germogliare per diventare pian piano un arbusto forte e indistruttibile.

Siamo alla Pasqua di resurrezione, dopo la tragedia del Golgota; la resurrezione di Gesù ci stimola a riflettere tra i tanti significati che vengono attribuiti a questo straordinario evento e tra questi il sacrificio finalizzato alla liberazione dal peccato e il dono della pace all’umanità intera. Oggi, però, dobbiamo prendere atto che quando parliamo di pace parliamo di  Pace come utopia, ovvero, di pace come valore trascendente, essendone affidata la realizzazione non alla potenza dall’alto ma alla buona volontà antropica dal basso, e dunque senza indicazioni di luoghi privilegiati dove poterla rinvenire, di isole felici che la custodiscono come un tesoro geloso.

La Pace, dunque, dono prezioso, ma da conquistare. Ed è così che, a due millenni abbondanti da quell’evento che destò anche la flebile speranza, il luogo concreto della pace viene spostato sempre in avanti, sempre altrove, nell’attesa  di tempi migliori, in regione di utopia sempre più concreta, nonostante essa sia vissuta, testimoniata, cercata, invocata, creduta da uomini e donne, leader religiosi e semplici credenti che non si arrendono al «paganesimo dell’indifferenza» come ribadisce papa Francesco. Che i tempi antichi, prima dell’avvento del Principe della Pace, fossero preda di Pòlemos, appellato da Eraclito «padre di ogni cosa», è un fatto narrato dalla filosofia incipiente, dai miti e dai poemi della Grecia antica.

Si sperava che la guerra tra gli umani cessasse col sorgere del nuovo credo monoteista che portava a compimento e chiarificava l’antico del “primo patto”, purificandone ogni tentazione di morte che aveva avviluppato anche i figli di Abramo, di Mosè e di Davide nel manto del potere e della gloria terreni, gemellandoli dunque col pòlemos eracliteo. Un itinerario antropologico e culturale per molti versi parallelo e segnato da una comune volontà di potenza e d’istinto di morte.

Non possiamo perciò dire che i due millenni dell’era cristiana siano stati tempi di pace sgorgata con lo stesso sangue pacifico e innocente di Gesù di Nazareth né che tutti i cristiani, veri o nominali, sinceri o presunti abbiano sconfessato con la prassi della vita l’arroganza e la violenza belligerante di Pòlemos. Quando si vuole attaccare il cristianesimo sul piano della prassi storica si fa di solito riferimento alle guerre di religione di cui sono macchiati da protagonisti nell’Europa “cristiana”, o andando indietro riesumando l’epopea poco edificante delle crociate.

E si fa riferimento, con ciò stesso, a tempi in cui tutti erano cristiani, per cui la guerra era totale nonostante il vangelo della pace, e come tale “normale” e di conseguenza giustificata con mille artifici sul piano morale della ragione machiavellica. Comprendiamo così che non è facile tenere viva la speranza. Andando avanti negli anni, svanite le illusioni giovanili, la prova dei fatti sembra chiuderci in un cerchio di ripetizioni immutabili, di un eterno ritorno irredimibile, per cui il così detto progresso dell’umanità rispecchia più l’apparenza che la realtà di un’epoca nuova, realmente diversa da un passato barbaro ed esecrabile.

Non si lascia ingannare, però, il poeta che scrive una reiterata profezia, un vaticinio mai creduto vero, quasi ipostasi di una rediviva Cassandra:

“Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi». E quell’eco freddo, tenace, è giunto fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.” Questi versi accorati di Salvatore Quasimodo ci dicono che noi siamo già fuori da quella novità che la fede cristiana ha introdotto nel mondo e che consiste, nonostante tutto, nello «sperare contro ogni speranza»; la speranza nel cuore della disperazione, la speranza a dispetto della smentita dei fatti: l’essere «senza Cristo» e apparentati a Caino.

E tuttavia dover nutrire speranza di pace nonostante l’assenza di pace; fede nella pace senza l’esperienza della pace. E tutto ciò a patto dell’apprendimento di un nuovo linguaggio cristiano maturato nel tempo rinnovato della sua esperienza storica, dove va presa sul serio la parola che l’essere umano è la via prioritaria della fede e che tutto l’universo della fede deve focalizzarsi sull’uomo vivente e misurarsi sulle sue attese. Il mondo attende da secoli di poter vivere una vera stagione di pace, la speranza non cede il passo al pessimismo, gli uomini di buona volontà continuano a lavorare alacremente per raggiungere l’agognato obbiettivo;  ciononostante dobbiamo ancora prendere atto che l’uomo non ha ancora superato il concetto di Pace come utopia e continua ad uccidere, a promuovere e fomentare conflitti ed a  commettere nefandezze.

Una riflessione che si impone nel giorno della Santa Pasqua, che è giorno di resurrezione e di ritorno alla vita.

Giacomo Marcario

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