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Entra nel vivo  il “grande gioco” del Quirinale. I partiti vogliono Draghi  Presidente del Consiglio e Mattarella al Colle

Quirinale

Il grande gioco del Colle è ormai giunto al suo momento clou. Mattarella ormai  verso l’addio, mentre crescono le chance affinchè  Mario Draghi per il bene del Paese resti saldamente legato alla poltrona di Presidente del Consiglio sostenuto  da quasi tutti i partiti dell’arco costituzionale

. Ad essere sinceri al momento l’unica cosa certa nel “grande gioco” della corsa al Colle, che ormai è entrata decisamente nel vivo, è che  a poche settimane dal giorno in cui verranno  aperte le urne dell’elezione quirinalizia è che Sergio Mattarella ha ufficialmente dichiarato che  non accetterà mai un bis. Il punto, che per lui, sembrava ovvio e definito, in realtà non lo è.

Le pressioni, e le richieste, di molti parlamentari, alcuni partiti politici, delle cancellerie europee e degli Usa, per non dire di intellettuali, artisti, scienziati, showman (Roberto Benigni, Piero Angela, Edith Bruck, etc.) che sono saliti al Colle per ricevere premi vari, onorificenze e che uscendone hanno formulato l’auspicio che Sergio Mattarella, sempre per il bene del Paese,  accetti un nuovo incarico. Seppur ‘a tempo’, come fu, nel 2013, per Napolitano, sono state, in questi mesi, ripetute e asfissianti.

Del resto, la popolarità dell’attuale Presidente è molto cresciuta con il passare del tempo del settennato, specie negli ultimi anni, quelli della pandemia. Un senso di vicinanza, non di lontananza, delle Istituzioni, nel momento tragico, “l’ora più buia”, rispetto al Paese che oggi ‘ama’ il suo Presidente.

Ma sette anni al Quirinale “possono bastare” ha più volte detto e ribadito Sergio Mattarella. L’attuale inquilino del Colle – ex professore di diritto costituzionale, ex giudice della Consulta, due elementi del curriculum da tenere a mente – in modo ufficiale per ben tre volte negli ultimi mesi ha detto, a chiare lettere, che non intende farsi rieleggere neppure per poco, neppure per un anno, con l’obiettivo di  garantire la ‘transizione’.

La prima volta che toccò l’argomento fu durante il discorso di Capodanno dello scorso anno  agli italiani, quando – in un’occasione che era, insieme, formale e colloquiale – ricordò a tutti che “quello che inizia sarà l’ultimo anno del mio mandato”. La seconda volta ribadì il punto a febbraio di quest’anno. In questo caso il ‘messaggio’ era rivolto al mondo politico e in punta di diritto. Con la ‘scusa’ di festeggiare i 130 anni della nascita di un suo predecessore, Antonio Segni, ne riprese il messaggio inviato alle Camere e datato 1963, messaggio rimasto, ovviamente, inascoltato: sette anni sono abbastanza, era il concetto espresso da Segni, per assicurare la continuità dello Stato.

E qui il tema si fa spinoso, a metà tra la prassi e il diritto costituzionale. La Carta costituzionale, infatti, non vieta espressamente la rielezione. Sull’argomento, semplicemente, tace, ma che i padri costituenti non la volessero è cosa ben nota. La Costituzione ‘materiale’, con il suo no de facto alla rielezione, aveva sempre fatto aggio sulla Costituzione ‘scritta’, silente sul punto, fino al bis – realizzatosi per la prima volta nel 2013 – della presidenza di Giorgio Napolitano che, dunque, è durata 9 anni (7 anni, 2006-2013, più altri due, 2013-2015), fino a oggi un vero record che, appunto, Mattarella bisserebbe.“Sono vecchio.

Tra otto mesi potrò riposarmi”. L’ultima parola. E così si arriva all’ultima volta, l’altro ieri, in cui il presidente Mattarella parla del suo mandato. L’occasione è assai curiosa. Il Presidente Mattarella interloquisce – fanno notare gli ambienti del Quirinale – “da nonno ai nipotini, in un ambiente informale, giocoso, scolastico”, ma non è la prima volta che Mattarella ‘usa’ i piccoli – uditorio cui tiene molto e cui parla volentieri – per spiegare, in parole semplici, chiare e dirette -cose che i ‘grandi’ (i politici) non vogliono capire. “Tra otto mesi potrò riposarmi”, dice Mattarella, visitando la scuola elementare “Geronimo Stilton” di Roma per la presentazione dell’agenda “Il mio diario”, realizzata dalla Polizia di Stato. “Sono vecchio”, precisa con un sorriso a “interlocutori” che sono bambini che non superano i dieci anni. In effetti, il 23 luglio – e qui entriamo nel tema del “calendario” – Mattarella ha  compiuto 80 anni.

Eppure, Pertini fu eletto Presidente a 82 anni e Napolitano, la seconda volta, ne aveva 88. Ma Mattarella viene da un settennato assai pesante e da tre crisi di governo assai turbolente che hanno avuto, ogni volta, esiti politici del tutto diversi. Inoltre, il “giudice”  della Consulta e lo “studioso” di diritto costituzionale pensa, in cuor suo, che sette anni sono un tempo biblico: rischiano di trasformare una Repubblica in una monarchia, anche se una “monarchia repubblicana” come ha detto, in camera caritatis ai suoi consiglieri.

Una prospettiva che proprio non lo ha mai convinto. Restare al Colle altri due anni (fino, cioè, alle Politiche del 2023) vorrebbe dire ‘scavallare’ persino la durata del mandato dei giudici della Corte costituzionale: troppo, veramente troppo. Resta, però, un problema “di agenda”: sul taccuino sono segnate, infatti, alcune date clou.

Il 3 agosto è iniziato il “semestre bianco”  e, il 3 febbraio 2022, decade formalmente il settennato di Sergio Mattarella, quindi per quella data si dovranno già essere aperte le urne ‘elettorali’ per eleggere il suo successore.

Ma chi sarà il nuovo Presidente, se Mattarella non concederà il bis?. Il nuovo Presidente sarà Mario Draghi?, come vuole e dice, a ogni piè sospinto, Matteo Salvini, che pensa e spera che, in questo modo, caduto il governo guidato dall’attuale premier, si vada il prima possibile al voto anticipato?

Oppure  l’attuale ministra alla Giustizia, ed ex presidente della Consulta, Marta Cartabia, che sarebbe anche la prima donna a salire al Colle, come sperano il mondo cattolico (Vaticano in testa) e gli azzurri e che non dispiace al Pd?. Caduta ormai la candidatura di Silvio Berlusconi, travolto da una valanga di giudizi negativi sia per l’età e sia per gli acciacchi, compresi quelli giudiziari, il centro destra si starebbe ricompattando   sul nome della presidente del Senato Casellati, sponsorizzata anche da Giorgia Meloni?

Nella girandola ormai vorticosa delle nomination troviamo un Veltroni, o un Franceschini, o un Gentiloni o un Sassoli, ed ancora lui, Prodi, C’è chi propone addirittura Giuseppe Conte per toglierlo di mezzo dalla corsa a leader dei 5Stelle come sognano nel M5s oppure Pierferdinando Casini ex D.C. doc sostenuto a sua volta da Matteo Renzi.

Per ora, è un quien sabe? (chi può saperlo?), ma alcuni candidati sono più ‘plausibili’ di altri; ma il vero problema è quello di coagulare i consensi per raggiungere il quorum previsto per la elezione del presidente al primo turno o in quelli successivi (dal quarto turno scatta il quorum della metà più uno dei grandi elettori). Salvini candida Draghi che si è mostrato, però,  pubblicamente ‘irritato’ dalle promozioni peraltro non richieste.  “Trovo estremamente improprio, per essere gentili, che si discuta del capo dello Stato quando ce ne ancora uno  in carica.

L’unico autorizzato a parlare del capo dello Stato è il presidente della Repubblica” taglia corto il premier Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa per illustrare il decreto sostegni bis che si è tenuta  a largo Chigi. Draghi è chiaramente infastidito dalla ‘campagna promozionale’ che su di lui va facendo Salvini. Il quale ha detto e ripetuto, in queste settimane, che “Se Draghi si presenterà come candidato presidente della Repubblica lo sosterremo convintamente”. Salvini spera, spedendo Draghi al Colle, di potergli chiedere in cambio qualcosa, dopo averlo eletto: lo scioglimento delle Camere per aprirsi la strada alle elezioni anticipate.

E’ abbastanza ovvia, qui, la considerazione che, dopo il governo Draghi, il terzo di colore politico diverso, nessun altro governo sarebbe possibile, in questa legislatura, fin troppo travagliata e tormentata da cambi di schieramento e di gruppo. Una ‘irritazione’, quella di Draghi così evidente tanto  da costringere Salvini, quasi in stereofonia, all’improvvisa retromarcia: “penso che il presidente Draghi abbia un enorme lavoro davanti nei prossimi mesi e non mi permetto io di indicare a lui cosa dovrà o vorrà fare”.

E, poi, un’altra considerazione da bugiardello incallito: “Se mi chiedete se oggi sto pensando alle elezioni del Quirinale, rispondo: “no”. Oggi sto pensando alla riapertura delle palestre” (sic).

Non pago durante la trasmissione Agorà (Rai tre) ha detto che “Mettere una scadenza non mi sembra rispettoso e neppure chiedere a Draghi di dire oggi cosa farà a febbraio 2022”. Salvini, insomma, non vede l’ora di mollare il PD, andare a votare e primeggiare sulla sinistra come pure su Berlusconi e la Meloni per imporsi come premier unico del centrodestra, coinquilini permettendo. Il messaggio, neanche troppo velato, di Salvini è dunque che, promuovendo l’ex presidente della Bce al Colle, rimarrebbe vacante Palazzo Chigi.

Ed è evidente come non ci siano più margini di manovra per la nascita di un governo diverso da questo: eleggere Draghi al Quirinale nel febbraio del 2022, vuol dire avere la quasi certezza di andare alle elezioni anticipate subito dopo, cioè in primavera del 2022. Certo, un Parlamento che si ammutina, come i ribelli del Bounty, potrebbe cercare di dare vita, un po’ alla disperata, a un nuovo governo non foss’altro che per arrivare alla fatidica soglia della pensione che matura solo dopo 4 anni e 6 mesi, cioè ai primi di settembre del 2022, non un giorno prima.

Oppure, al Pd potrebbe riuscire l’aggancio con gli azzurri per dare vita a una ‘maggioranza Ursula’ e sostenere, facendo nascere il quarto governo di colore politico diverso nella legislatura (M5s-Pd-LeU-FI), l’ennesimo ‘ribaltone’, isolando Salvini, ma sono entrambe pie illusioni. I parlamentari sono peones che non possono guidare rivolte, e FI non mollerà mai Lega e centrodestra per il Pd.

Sondaggi alla mano, inoltre, il ritorno alle urne è il primo desiderio non solo del Carroccio ma soprattutto di Fratelli d’Italia. E infatti qualche giorno fa Giorgia Meloni – che su Draghi al Colle si è limitata a un gelido “non ho elementi ora per valutare questo scenario” – si è fatta sfuggire ciò che tutti sanno: “A favore di Draghi c’è il fatto che si andrebbe a votare. Sulla sponda opposta, invece, Enrico Letta allontana ogni toto-nome per il Quirinale: “ Non sono in grado di dire in questo momento, cosa accadrà in occasione della elezione del presidente della Repubblica”. Il segretario democratico batte sempre sullo stesso punto: “Quello che è certo è che questo governo, giorno per giorno e settimana per settimana, deve essere fondamentalmente il governo del delivery, il governo che consegna, che fa le cose, il concetto essenziale che noi auspichiamo è la continuità di governo”.

Parole che vanno lette anche al contrario, come in una frase palindroma: se Draghi va al Colle, si apre la strada del voto, non posso permetterlo (alle destre) e neppure permettermelo, dato che il PD continuerebbe a perdere più consensi di ora e la mia stessa leadership verrebbe messa a rischio. ”Chi, dopo Mattarella, dunque?

Tutti i giochi sono aperti, ma la ‘dura legge dei numeri’ dice che, almeno sulla carta, questa volta è il centrodestra a essere in pole position.

Infatti, dentro un ‘collegio elettorale’ di 1011 ‘grandi elettori’ (630 deputati, 321 senatori, trenta delegati regionali, tre per regione), il centrodestra (la somma di Lega+FdI+FI+Udc+Cambiamo) ne ha 450 (412 onorevoli e 30 consiglieri regionali) voti mentre l’alleanza giallorossa (Pd+M5s+LeU) ne ha solo 406 (386 onorevoli e 20 ‘regionali’), 45 sono i parlamentari di Iv (‘ago della bilancia’, il gruppo di Renzi, a seconda con chi si schiererà) e 107 i parlamentari del Misto, una ‘palude’ fatta, per la stragrande maggioranza, di ex pentastellati.

Serve la maggioranza dei tre quarti del ‘collegio’ solo nelle prime tre votazioni, dalla quarta basta la maggioranza assoluta. Per il centrodestra, l’antico sogno che in trent’anni di Seconda Repubblica non ha mai colto (le elezioni presidenziali erano sempre ‘sfasate’ rispetto alle Politiche che il centrodestra vinceva – 1994, 2001, 2013 – e sempre in linea con le vittorie del centrosinistra – 1996, 2006, 2013 – e quindi mancavano i numeri), e cioè di poter finalmente esprimere un proprio uomo (o donna) al Colle più alto, è a un passo, ma solo se resta unito e aggrega consensi.

Il che, per il centrodestra attuale, non è facile.

Ma la Corsa al Colle è aperta, sarà interessante seguire l’evolversi delle situazioni soprattutto all’interno dei partiti e statene certi che con l’aria che tira ne vedremo di certo delle belle!

Giacomo Marcario

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