La donna dopo il ritorno dei talebani al potere ha chiesto di essere aiutata a lasciare il Paese e l’Italia si è attivata, organizzandone il trasferimento.
AGI – Due occhi verdi che ‘bucano’ l’obiettivo, un velo rosso che incornicia un viso giovanissimo: è Sharbat Gula, la ragazza afghana ritratta dal celebre fotografo Steve McCurry e scelta per la copertina del National Geographic del giugno 1985.
All’epoca il suo nome non era noto, l’artista americano l’aveva incontrata in un campo profughi vicino Peshawar, una delle migliaia di afghani fuggiti in Pakistan dopo l’invasione sovietica. Il suo sguardo talmente potente scosse le coscienze, assurse a simbolo di quella tragedia umanitaria e fece il giro del mondo, imprimendosi nella memoria collettiva.
Scattò la corsa per cercare di scoprirne l’identità. Nel gennaio 2002, il fotografo americano insieme al National Geographic organizzò una spedizione per trovare quella che era stata ribattezzata la ‘Monna Lisa afghana’. Dopo mesi di ricerche, fu individuata e il suo nome venne svelato.
McCurry scattò una nuova foto e il confronto con quella della metà degli anni ’80 è impietoso: a trent’anni di distanza, l’immagine rimanda il volto di una donna che ha dovuto affrontare molte prove, una vita difficile che si riflette nelle macchie sul volto, le occhiaie, le guance appesantite. Ma gli occhi sono sempre quelli, due ‘fanali’ verdi che ricordano quella 12enne che fissava l’obiettivo con rara intensità.
La storia di Sharbat
Nata all’inizio degli anni ’70 nella provincia orientale afghana di Nangarhar, giovanissima scappa insieme ad alcuni familiari dal villaggio bombardato dai sovietici. Con tre sorelle, un fratello e una nonna attraversa le montagne e finisce in un campo profughi pakistano. Quando la vede per la prima volta, McCurry resta folgorato: “Ho saputo all’istante che questa era veramente l’unica foto che volevo scattare”, disse in seguito.
La notorietà internazionale suscitata dalla sua immagine in copertina non la sfiora: a 13 anni si sposa, ha cinque figli, di cui una muore subito dopo la nascita; l’epatite C le porta via il marito, e colpisce anche lei. Nel 2016 viene arrestata con l’accusa di aver falsificato i documenti per vivere in Pakistan, pratica comune per gli afghani che vivono nel Paese senza uno status legale. Viene espulsa e rimandata in patria, dove il governo si impegna a darle una casa e mezzi di sostentamento.
Il resto è storia dei nostri giorni: dopo il ritorno dei talebani al potere, chiede di essere aiutata a lasciare il Paese e l’Italia si attiva, organizzandone il trasferimento. E’ così che arriva finalmente a Roma. (agi)