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La convivialità

Telefono a Lele. Mi arriva il messaggio che è in riunione. Scendo giù ad apparecchiare la tavola.

Tiro fuori piatti, posate e bicchieri dalla lavastoviglie. Sistemo la tavola. Metto i tovaglioli. Metto le medicine. Dopo tre quarti d’ora mi arriva la sua chiamata. Non pensavo si liberasse così presto.

Ho il telefonino su in camera mia, a malapena lo sento, avverto gli squilli ed io invece sono giù in cucina a farmi il caffè.

Spengo la moka. Salgo le scale di corsa e rispondo. Iniziamo a parlare del più e del meno. Ogni settimana ci sentiamo e facciamo il punto della situazione, ma molto difficilmente ci sono buone nuove. Sono ancora affannato.

Ad un certo punto della conversazione gli dico che il Covid oltre a fare tantissimi danni umani, economici, psicologici ha tolto molta convivialità.  Ognuno di noi ad ogni minima interazione sociale ha il sospetto di imbattersi in un positivo, ha il timore più o meno fondato del contagio.

Lele mi dice che lui è sempre in giro per i bar e vede bene che quelli della nostra età si sono tutti ritirati socialmente, escono il meno possibile, si sono ritirati nella loro bolla.  Io gli dico che peggio è per i più giovani.

Noi molto tempo fa la nostra vita l’abbiamo fatta, ci siamo divertiti. I suoi figli sono svantaggiati, hanno sofferto più di tutti durante la pandemia.

Io penso che i veri momenti topici, il vero periodo d’oro nella stragrande maggioranza delle vite sia la giovinezza. Di solito è lì che tutto si decide nel bene o nel male. È lì che avvengono le vere svolte.

È in quel periodo che ci si trova di fronte ai bivi importanti. Come scrive in una poesia Mario Luzi gli errori della giovinezza spesso si pagano tutta la vita. Talvolta ho come l’impressione che il resto della vita sia più noioso e meno intenso, meno felice, per alcuni versi pleonastico, se non superfluo.

In fondo mi chiedo: se non si divertono ora i suoi figli quando si divertiranno? Ripenso che io Lele siamo amici di infanzia. Ci conosciamo da una vita. Non è importante per noi essere comunicativi, eccedere nei particolari, sproloquiare. Ci capiamo anche in silenzio.

Bastano poche parole a volte. Spesso quando camminiamo per digerire ci mettiamo a ricordare qualche aneddoto riguardante la scuola. Non posso dire di conoscerlo come le mie tasche perché le tasche sono facilmente conoscibili; una persona invece è incommensurabile, non si conosce mai fino in fondo, come dice il proverbio.

Eppure siamo così bravi ad etichettare e categorizzare gli altri sulla base di impressioni fugaci! Soltanto della nostra persona rivendichiamo la complessità. Per gli altri ammettiamo ogni possibile ipersemplificazione.  Sulla base di un contatto molto sporadico ecco subito i primi giudici affrettati! E non venite a dirmi che non è così!

Il sole sta tramontando.  Giungono gli ultimi raggi dalla finestra. Mi ricordo che giocavamo a pallone insieme a otto, nove anni. Costruivano capannini,  campetti di calcio.

Spesso giocavamo in strada, mentre oggi nessuno lo fa più. Poco più tardi facevamo gavettoni alle coppiette che si appartavano e poi fuggivamo, nascondendoci nei campi di girasoli.

Eravamo una comitiva di adolescenti che cercava di divertirsi con poco. Nessuno di noi leggeva l’opera omnia di Proust ed infatti nessuno è diventato scrittore. Le nostre letture formative erano altre: certi fumetti, certe riviste erotiche e pornografiche, che ci davano una visione distorta della sessualità e delle donne.

Da un lato il maschilismo pornografico e dall’altro i principi morali del catechismo: una pseudoschizofrenia adolescenziale italica ma non solo.

Lele come adolescente era fortunato. Aveva una villa di centinaia e centinaia di metri quadri e perfino una sala giochi con dei veri videogame nell’ampio scantinato.

È sempre stato tifoso della Fiorentina. I suoi alti e bassi sono determinati dai risultati spesso altalenanti della squadra del cuore. Lele si è sposato giovanissimo con Cristina e hanno fatto 4 figli. Il primo figlio è all’estero.

Il secondo è volontario della Misericordia,  il terzo lavora part-time in una società di catering, il quarto fa il liceo. Gli dico che qui rincara tutto e che le bollette saranno iperboliche.

Altro che storie! Gli dico che forse hanno deciso di far scomparire il ceto medio e di ridurre tutta la popolazione ad una classe dirigente sempre più ricca, più influente ed una gran massa di sfruttati, che arriva a stento alla terza settimana del mese.

Ma dico ciò tra il serio ed il faceto, a metà strada tra la sentenza e la battuta. I primi anni del matrimonio lui e Cristina sono stati nelle Marche.

Lì aveva una pellicceria. L’avevano preso di mira i ladri professionisti.  Poi c’era la crisi in cui versava l’intero settore. Così è ritornato in Toscana a fare il rappresentante.  Ha cambiato diverse volte lavoro. Questo in estrema sintesi è quello che vi è dato sapere.

Ci siamo persi di vista per anni. Poi una volta ci siamo decisi ad andare a cena insieme. Abbiamo ricominciato a vederci. Il nostro luogo di ritrovo era il ristorante-pizzeria Baldini in viale 4 novembre.

Lì ci riunivamo sempre davanti ad un piatto di penne all’arrabbiata ed una pizza. Poi quel locale ha cambiato gestione e non siamo più tornati. Il nuovo ristorante-pizzeria è molto frequentato dai pontederesi, è diventato troppo in per noi.  Dicono che si mangi bene, ma noi cerchiamo posticini dove ci bazzica poca gente, dove possiamo parlare liberamente e stare in libertà, a scapito anche della qualità.

Avevamo trovato un ristorante cinese a Pontedera in piazza Pasolini. Si spendeva relativamente poco e si mangiava bene. Però non è sopravvissuto alla pandemia. In quindici anni abbiamo mangiato nei posti più disparati della provincia di Pisa. Erano sempre posti molto economici.

Siamo stati in ogni ristorante etnico tranne quello greco. Ma possiamo accontentarci anche di un panino. Andavamo anche alla Bottega del maiale sul corso a Pontedera e allo Sciagattapanini a Vicopisano.

Quando andavamo a Pisa, dopo aver mangiato, una tappa obbligatoria era il bar Gambrinus nei pressi della stazione.  Lì ci si imbatteva nella umanità più varia. Noi non volevamo mescolarci con il mondo studentesco, per noi inaccessibile, chiuso ed impenetrabile a causa della nostra veneranda età. Quindi non andavamo mai a berci una birra sulle spallette dell’Arno ma andavamo al Gambrinus.

Lì ad un tavolino fuori sorseggiavamo la nostra birra e guardavamo il passeggio. Un posto buono per le pizzerie è Buti. Un altro ancora è Forcoli.

Ogni tanto andavamo anche là. D’altronde come scrive la Yoshimoto non esistono nella vita solo le grandi cose, ma talvolta si è contenti, quasi felici con le piccole cose: una serata tra amici, raccontarsi banalità, fare i buffoni, vivere tre ore spensierate e leggere, che trascendono i problemi veri e difficili della vita, quelli che troveremo immancabilmente il giorno dopo (ma intanto ci siamo presi una pausa, abbiamo respirato un poco, ci siamo distolti dai soliti pensieri).

In fondo perfino nei conventi i religiosi festeggiano sobriamente i compleanni. Distrarsi ogni tanto è un dovere. Mai prendersi troppo sul serio! Bisogna saper adoperare anche l’autoironia,  che talvolta giunge all’autodenigrazione. Non facciamo un torto a nessuno ed è un nostro diritto divertirci un poco ogni tanto.

È vero che c’è il rischio di ritornare liceali o addirittura il rischio dell’infantilismo cronico. Ma se si valuta col giusto peso tutto ci si rende conto che non c’è nessuna dissonanza cognitiva in noi, nessun senso di colpa.

Talvolta ho la netta impressione che ritrovarsi con un ex amico di infanzia sia fare un bel tuffo nel passato. Ma per altri potrebbe essere diversamente. Dipende da quale persona si incontra. In alcuni casi potrebbe essere una noia, un fastidio. Mi rendo conto che la cosa è soggettiva.

Con Lele non vado a cena da quando è iniziata questa storia del Coronavirus. Mi ricordo che l’ultima volta andammo in una trattoria che aveva appena cambiato gestione. Si mangiò una schiacciatina col prosciutto molto buona, un buon primo di pappardelle al cinghiale ed il baccalà.

Conversammo amabilmente con la titolare, una ragazza sulla trentina,  da poco madre, e constatammo la sua voglia di fare. Era molto speranzosa, aveva appena rilevato l’attività: era piena di sogni. Si spese poco quella sera. Dicemmo a quella ragazza che saremmo ritornati.

Le cose andarono molto diversamente. Al telegiornale quel giorno avevano parlato di un nuovo virus che si era diffuso in Cina. Se ne sapeva ancora troppo poco. Sembrava essere una cosa molto lontana.

Sembrava che non ci riguardasse. Nessuno sapeva cosa ci attendeva. Quella trattoria oggi è chiusa e quella ragazza molto probabilmente è piena di debiti.

Noi che tutto sommato siamo più fortunati possiamo dire che questo virus ci ha tolto ore d’aria, uscite con gli amici, insomma libertà e convivialità.

Davide Morelli

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