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Quali libri scegliere quest’estate

Quali libri scegliere quest’estate. Le letture suggerite dai giornalisti dell’Agi.

Non necessariamente ‘da ombrellone’ (senza nulla togliere al genere!) ma sempre occasioni per riflettere, scoprire e magari riscoprire.

Romanzi, moltissimi romanzi; una mezza dozzina di classici e tanti saggi, sugli argomenti più vari: dallo sport alla storia, dalla politica alla filosofia. Alcuni con un filo conduttore che è un po’ il segno dei nostri tempi: la pandemia. Sono i suggerimenti dei giornalisti di AGI per le letture dell’estate: non necessariamente ‘da ombrellone’ (senza nulla togliere al genere!) ma sempre occasioni per riflettere, scoprire e magari riscoprire. Ecco dunque i nostri suggerimenti.

Il deserto dei tartari – Dino Buzzati – Mondadori

Nell’estate, in alcuni momenti almeno di questa stagione altrimenti frenetica, ho sempre ritrovato la sospensione che avvolge la Fortezza Bastiani. In piccole dosi, un sapore piacevole. Depurato dal senso dell’ineluttabile fallimento che è la cifra del Deserto dei Tartari, è il sapore dell’attesa, di quello che verrà. Con il tempo, quell’attesa si accartoccerà su se stessa ma per un tratto conserva il gusto del nuovo. Non la speranza, ma proprio la certezza che qualcosa di buono accadrà. I tempi distesi agostani sono tra i più adatti per una rilettura del romanzo di Dino Buzzati, un’occasione per recuperare quello spazio di riflessione che spesso ci neghiamo. Cosa cambia questa volta? Prima di tutto, e come sempre, noi. E infatti ogni volta che ci riaccostiamo a un libro, o a un film, finiamo per trarne sensazioni sempre diverse, per coglierne sfumature nuove. Stavolta poi, e non è affatto poco, il nemico ha davvero dato l’assalto. Ha sfondato le linee, è ancora alle viste. Ma stavolta eravamo lì. Colti di sorpresa, costretti a pagare un prezzo pesantissimo prima di riuscire a rispondergli, ma ci ha trovati sul posto. E’ per questo che, partito tenente, congedato dalla vita con i gradi di maggiore, Drogo disegna una parabola umana dal valore assoluto, pur prendendo le mosse dalle fascinazioni  evocate (piccola civetteria di categoria, quale potrà essere la ‘fortezza’ evocata dal cronista Buzzati?)  nei lavori che portano a spenderne parte nel cuore della notte. Una parabola che tutti, dunque, abbiamo incrociato. Decadente, a tratti mistica nelle atmosfere, disperante quanto asciutta. E nonostante questo mi piace pensare che i tempi che attraversiamo ancora adesso siano proprio quelli che Drogo non ha fatto in tempo a vedere. E allora faccio quello che a un giornalista è vietato e mi permetto di citare fuori dal contesto e di (stra)volgere, in positivo, uno dei passaggi più amari di un’opera che non è né vuole essere un momento di speranza. Perché è quella, insieme alle maniche rimboccate, che ci occorre. “… E si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti. Ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo“. (Bruno Alberti)

Il giardino dei ciliegi – Anton Cechov – Einaudi

Una famiglia aristocratica russa, sul finire del XIX secolo, è costretta a vendere all’asta la sua proprietà per pagare i debiti. A comprare la residenza sarà un giovane mercante – figlio dei servi della gleba, un tempo proprietà di quella stessa famiglia – rappresentazione della nuova borghesia emergente e di tutto un mondo destinato, di lì a poco a prendere il sopravvento. Si riassume in poche righe la trama del ‘Giardino dei Ciliegi’ di Anton Cechov (1860-1904), tra i massimi capolavori del teatro moderno, l’ultima e secondo molti critici la più lirica delle sue opere.

La Bellezza insidiata dalla banalità. La banalità come elemento tragicomico. La nostalgia per le certezze passate diventa stato d’animo di una classe sociale avviata verso l’estinzione e per questo nella perfetta condizione per riflettere, non senza ironia, sul senso ultimo della vita e l’effimero dell’esistenza. Interrogativi a cui ci si riesce a sentire particolarmente vicini in questo momento che ci vede alle prese con la sofferenza del mutamento verso un ancora poco chiaro mondo post-pandemico.

Una famiglia riunita per decidere il futuro della tenuta da cui, i più giovani cercano la fuga e i più anziani trovano una trappola fatta di memorie e dubbi esistenziali. Non ci sono colpi di scena, palpitazioni o intrighi. C’è il rammarico per le occasioni perse, ma senza la frustrazione per non essere riusciti a cambiare. Pochi elementi sulla scena e nella lingua avvolgono il lettore nel vortice di un’attesa (quella dell’asta che mai si vedrà in scena) che diventa universale ricerca del senso ultimo della vita.  La scure che si abbatte sugli alberi (che nell’originale russo, piccola curiosità linguistica, sono di amarene e non di ciliegie) segna la scomparsa del Giardino e passa alla storia della letteratura come il simbolo della fine della nobiltà in Russia, la morte di un’intera società e la metafora dell’effimero. Varrebbe la pena rileggere tutto il teatro di Cechov, di certo non una classica lettura da ombrellone ma anche questa estate, d’altronde, è ben lontana dal potersi definirsi classica… (Marta Allevato)

‘Il maledetto United’ – David Peace – Il Saggiatore

Quando il calcio era pioggia, fango, tribune in legno, decine di migliaia di spettatori urlanti a pochi metri dal campo. Quando il calcio era fatto di difensori rudi, interventi spaccagambe, pub, pinte di birra bevute in lontani pomeriggi di sabato in bianco e nero nelle Midlands. Erano gli anni ’70, era l’Inghilterra, c’era ‘il maledetto United’ e c’era Brian Clough, uno degli allenatori più intrattabili, presuntuosi e arroganti della storia, ma anche uno dei più geniali. Antipatico come Mourinho ma senza le sue scaltrezze. 

‘Il maledetto United’ è il libro, scritto da David Peace, che racconta un breve spaccato della vita di Brian Clough, quando nel 1974 prese il timone dell’odiato Leeds United. Clough proveniva dalla squadra rivale, il Derby County, presa nella Second Division e portata fino al titolo inglese. Odiava il Leeds, lo accusava di vincere ‘sporco’, con interventi scorretti, proteste verso l’arbitro, sceneggiate. Clough viene scelto inaspettatamente per succedere a Don Revie, che nel 1974 con il Leeds campione, va a guidare la nazionale inglese. Revie aveva allenato il Leeds per 14 anni, l’età d’oro della squadra dello Yorkshire, vincendo due campionati, un FA Cup e due Coppe delle Fiere.

Clough al Leeds dunque, allo United: un po’ come se Mourinho dopo il triplete con l’Inter fosse andato al Milan, o alla Juventus. Poteva funzionare? Si può allenare una squadra che dentro di sé si detesta? No, era solo questione di tempo, e il libro è la cronaca romanzata, ma neanche tanto, delle difficoltà incontrate, degli scontri con i vertici societari e soprattutto con i calciatori, che dopo le polemiche degli anni precedenti lo rifiutano come un corpo estraneo. L’avventura finisce dopo 44 giorni e sette giornate di campionato, con una sola partita vinta. Clough aveva l’ambizione di trasformare il Leeds, di farlo vincere giocando bene e senza imbrogliare, ma fallisce: “Loro non sono la mia squadra. Non la mia. Non questa squadra e non lo saranno mai”.

David Peace riesce a ricreare in maniera magistrale quell’ambiente, uno spaccato palpitante di vita. I tifosi, i dirigenti, l’ambiente paludato della federazione inglese, finanche i massaggiatori e le segretarie, non trascura nessun dettaglio. Il libro finisce qui, non racconta la rivincita che si prenderà Clough pochi anni dopo. Va al Nottingham Forest, lo porta in First Division, poi al titolo di campione d’Inghilterra, poi alla Coppa dei Campioni. Tutto in tre anni. L’anno successivo rivince la Coppa dei Campioni. Il Nottingham è tuttora l’unico club europeo ad aver vinto più Coppe dei Campioni (due) che campionati (uno). (Gianluca Allievi)

Cuore di tenebra – Joseph Conrad – Feltrinelli

Il destino di ‘Cuore di tenebra’ è quello riservato a molti classici: essere conosciuto dai più per le numerose e varie trasposizioni cinematografiche piuttosto che per l’intima essenza letteraria. Alcune di queste versioni sono assurte a gloria eterna – come ‘Apolaypse Now’ – altre sono condannate all’oblio dalla propria insipida fedeltà al testo – penso alla versione del 1994 interpretata da Tim Roth e John Malkovich. Chi non avesse visto il film di Francis Ford Coppola, né quello di Nicolas Roeg ha però con ogni probabilità memoria di un’altra versione, quasi per nulla celebrata: ‘Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa’ diretto da Ettore Scola nel 1968, ricco di rimandi conradiani ma in una agrodolce salsa italiana.

Più cinema che letteratura, verrebbe da dire, ma è solo un malinteso: in ‘Cuore di tenebra’ c’è più letteratura di quanta ce ne sia in qualunque altro romanzo a tema coloniale o d’avventura. Perché questo, che secondo me è il più riuscito romanzo di Joseph Conrad – più dell’appassionante ‘Tifone’ e dell’inquietante ‘La linea d’ombra’ – è un romanzo totale. Totale e totalizzante. Quando ci mettiamo in navigazione lungo il fiume Congo in compagnia di Marlow e della bizzarra comitiva di pellegrini, cannibali e agenti di commercio, ci immergiamo realmente in quel cuore di tenebra che è l’essenza stessa dell’uomo quando assume se stesso come unico punto di riferimento. Una storia tutto sommato breve – la forma del metaracconto (è lo stesso Marlow a raccontare all’equipaggio di una nave la sua avventura in Africa) non permetterebbe una estensione maggiore – che però contiene, condensata con una potenza narrativa impareggiabile, tutta l’esperienza umana. L’ambizione, la disperazione, l’odio, la rabbia, l’avidità, la passione, la follia, l’oblio. Nulla manca in quello che Marlow vive sullo sgangherato battello di cui è il comandante e nulla Conrad ci risparmia, con una forza descrittiva che come le sabbie mobili, la fitta vegetazione, o una miriade di mani rapaci, ci trascina fin nei meandri più bui di quella tenebra. Non è una lettura dalla quale si esce indenni, perché dispiega davanti a noi quello che siamo, che siamo stati e continueremo a essere. Esseri inquieti, insoddisfatti, arroganti e pretenziosi, convinti di avere ragione su tutto e tutti. Una cosa che già aveva illustrato Rudyard Kipling, quando, appena una decina di anni prima del romanzo di Conrad, aveva dato vita al protagonista del racconto ‘L’uomo che volle farsi re’. Ma che in ‘Cuore di tenebra’ raggiunge un altro livello, quando ci rendiamo conto che alla fine di tante passioni e tribolazioni, tutto ciò che stringiamo nelle mani non è altro che quello cui Kurtz dà forma con il suo ultimo grido: “l’orrore, l’orrore”. (Ugo Barbàra).

Anni bui – Salvatore Lordi – Bibliotheka

Quando la cronaca diventa storia, succede che la memoria dei fatti si sovrapponga a quella dei protagonisti, trasformando le vittime in ‘numeri’. E’ la sorte toccata a tanti degli appartenenti alle forze dell’ordine e dei militari caduti nel nostro Paese sotto i colpi del terrorismo di destra e di sinistra. Nomi, volti e vite spezzate che riemergono in “Anni bui” (Bibliotheka edizioni, 536 pagine, 18 euro) il libro con cui il giornalista e storico Salvatore Lordi ricostruisce fatti e antefatti di un quarto di secolo di storia italiana e dà la parola per la prima volta ai familiari delle centinaia di vittime in divisa di una ideologia malata e imbevuta di cieca violenza.

Si parte una decina d’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale con la scellerata stagione dell’irredentismo sudtirolese e si procede nel tempo con il delinearsi della strategia della tensione, gli anni della lotta armata, la contrapposizione tra eversione di destra e di sinistra, l’attacco al cuore dello Stato, fino alla strage di Bologna. Anni terribili, anni di piombo, anni bui appunto, che si lasciano dietro una lunga scia di sangue: magistrati, politici, giornalisti più o meno famosi ma anche tanti poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari dell’Esercito di cui quasi sempre restano solo un nome inciso su una targa, una medaglia alla memoria, un articolo di giornale sepolto in un archivio. Il loro ricordo, non importa quanti anni siano trascorsi, resta pero’ indelebile in genitori, mogli, figli, fratelli e sorelle: ed è a loro che Lordi regala voce, in una Spoon River che prima del dolore dell’improvviso distacco mescola gioie e delusioni, lacrime e sorrisi, speranze e aspettative di esistenze che avrebbero potuto essere meravigliosamente ‘normali’. (Stefano Barricelli)

La notte delle ninfee – Come si malgoverna un’epidemia – Luca Ricolfi – La nave di Teseo

Il libro di Luca Ricolfi ‘La notte delle ninfee – Come si malgoverna un’epidemia’ pubblicato da ‘La nave di Teseo’ nella collana ‘i Fari’ è una riflessione utile, seria e dettagliata della pandemia che ha colpito il mondo, ormai da oltre un anno. Sarà ancora più interessante quando sarà inserito nel dibattito che da cronaca diventerà storia per comprendere le difficoltà, gli errori, le sottovalutazioni, le problematiche insuperabili delle società moderne, che siano in Africa, in Europa o nel Nord America a fronte della sfida del Covid-19.   Utilissimo da leggere durante le vacanze con la ‘variante Delta’ alle porte e con la speranza di aver, mese dopo mese, allontanato la fase più acuta della pandemia.

Luca Ricolfi, uno dei più autorevoli sociologi italiani – suo è lo studio del 2019 su ‘La società signorile di massa’ edito sempre da ‘La nave di Teseo’ – libero da ogni pregiudizio esce fuori dalla assurda contrapposizione e ideologica alternativa tra negazionisti e rigoristi, fra aperturisti e paladini del lockdown, per fornire una interpretazione – condivisa con la Fondazione Hume, sugli errori che hanno caratterizzato questa tragica vicenda che ha così pesantemente segnato la società italiana.

Era possibile fare qualcosa di meglio ed evitare la prima e la seconda ‘ondata’ si chiede Ricolfi? “Come andranno le cose? L’ottimismo della volontà mi fa sperare che, finalmente, si cambierà strada, e si guarderà con più attenzione al modello dei Paesi che hanno avuto successo nella lotta al virus. Ma il pessimismo della ragione mi avverte: l’attesa messianica del vaccino avvolgerà tutti e tutti, quasi niente cambierà davvero, nessuno sarà chiamato a rispondere delle sue azioni. Né ora, né mai”.

Il modello adottato in Italia – ricorda Ricolfi – è fondamentalmente il modello di fatto prevalente in Europa, ovvero il protocollo LSG (incentrato su uno o più lockdown intervallati da periodi di rilassamento delle restrizioni), ma è anche da sottolineare, che nel nostro Paese tale protocollo si è inserito su una debolezza preesistente, ed è stato attuato “nel modo più autolesionista e dannoso possibile”.     

Le debolezze preesistenti sono presto dette: una popolazione tra le più anziane del mondo, pochi posti letto  ospedalieri (sia ordinari che di terapia intensiva), pochi medici ed infermieri, mancato aggiornamento del piano anti-pandemia del 2006, nonostante le sollecitazioni dell’Oms.    Ci si renderà conto che negli ospedali manca tutto il necessario solo a pandemia partita, a partire dai dispositivi di protezione individuali (i celebri Dpi) che avrebbero dovuto proteggere medici e infermieri. “Non puntare – scrive Ricolfi – risolutamente sulla sorveglianza attiva (tamponi + contact tracing + quarantena) e tenere basso – troppo basso – il numero di test fino a metà ottobre, quando ormai è tardi, perchè il sistema di tracciamento è saltato” è stato un errore che ha avuto un costo di morti e di danni per l’economia inaccettabile. La differenza tra nazioni come Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Australia e Nuova Zelanda è che solo 10 o centro casi al giorno sono sufficienti a far scattare l’allarme, mentre l’approccio seguito da Europa, Italia mira a tenere aperte le attività economiche fino a quando non si è maturato il disastro sanitario che quindi giustifica – da parte di politici ossessionati dal consenso – scelte di lockdown.

Ricolfi nella sua puntuale analisi spiega: “dobbiamo prendere atto che, quando la cultura dei diritti si spinge oltre una certa soglia, un sistema sociale diventa fondamentalmente ingovernabile. O magari, dovremmo cominciare a pensare che non solo l’Italia , ma una parte considerevole dell’Europa sta assumendo tratti della ‘società signorile di massa’, con il primato dei consumi e del tempo libero”. Dal libro di Ricolfi quindi si parte dalla pandemia e si scruta la società europea e mondiale. (Domenico Bruno).

Stella del Mattino – Wu Ming 4 – Einaudi

Quanto vale la scrittura? Come può aiutarci a superare, o almeno a elaborare, i traumi che ci sconquassano le vite, siano essi veri o

immaginari? Wu Ming 4, membro dell’omonimo collettivo, ha fatto del tema uno dei punti cardine di Stella del Mattino, una storia romanzata, ma dai contorni e protagonisti reali, che si muove fra l’epicità, il racconto scorrevole e la riflessione interiore. Ambientato in una Oxford attraversata dai fantasmi della prima guerra mondiale, il libro si snoda fra quattro figura che hanno lasciato un segno nella storia del 900, chi solo con la propria letteratura, chi anche con le proprie imprese. Il ‘protagonista’ è Thomas Edward Lawrence, più noto come Lawrence d’Arabia, alle prese con la (ri)scrittura de I sette pilastri della saggezza; accanto a lui orbitano J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e il poeta Robert Graves. Tutti poco più che 20enni, tutti segnati dall’esperienza e dalle perdite della guerra di trincea, alle prese con sensi di colpa per i compagni perduti o per i patti traditi, nella scrittura trovano una chiave per fare i conti con gli strascichi di un qualcosa che faticano ad elaborare. Tramite gli incontri reciproci, fortuiti e cercati, e tramite l’impatto che Lawrence d’Arabia ha sui tre coprotagonisti, che a loro volta lo indagano, Wu Ming 4, con passaggi più aderenti ai fatti e altri più romanzati, affronta il nodo dello scrivere come “terapia non solo privata, personale, ma anche pubblica e sociale”, come spiega lo stesso autore. Scrivere significa dunque “interagire col mondo”, che solo attraverso la narrazione può riconoscersi e fare i conti con la propria esperienza. (Matteo Buffolo)

I quaderni botanici di madame Lucie – Melissa Da Costa – Rizzoli

“I quaderni botanici di madame Lucie” di Melissa Da Costa (Rizzoli) è l’ultimo libro, in ordine di tempo, acquistato in questa estate 2021. Da subito mi ha incuriosito il titolo, botanica e giardini non mi lasciano indifferente, poi l’ambientazione, la campagna francese, un altro punto a suo favore. 

La storia è tragicamente semplice: una vita che sembra perfettamente impostata, che viene totalmente stravolta nel giro di pochi minuti da un incidente stradale. Amande che ha perso tutto cerca rifugio in una casa nelle campagne francesi dell’Auvergne. Una casa completamente isolata dentro alla quale si rinchiude lasciando fuori il mondo. A riportarla alla vita saranno agende, calendari, appunti scritti dalla precedente proprietaria, madame Lucie, appunto, “che raccolgono ricette e dettagliate indicazioni per la cura del giardino, una specie di lunario fatto in casa”. Istruzioni ed attività di cura del giardino, intraprese per la prima volta, oltre ad un ostinato gatto grigio “che decide di adottarla” che un po’ per volta le permetteranno di tornare a vivere, proprio come il passaggio della natura dall’inverno alla primavera, e soprattutto le offriranno nuove strade con la possibilità di svoltare e iniziare ancora una volta a costruire. Un libro che si legge velocemente, semplice ma nella sua semplicità con un messaggio positivo. (Chiara Caratto)

Dante – Alessandro Barbero – Laterza 

La Divina Commedia è stata scritta da un politico. Un vero politico, di professione, pienamente immerso nel suo tempo e nella sua città, Firenze. A spiegarlo in un’appassionante biografia di Dante Alighieri è lo storico Alessandro Barbero, noto al grande pubblico per la sua collaborazione con il programma ‘Superquark’ di Piero Angela. Il volume, edito da Laterza, è frutto di un lavoro di ricerca meticoloso e approfondito (ci sono quasi 60 pagine di note!) e racconta come il Sommo Poeta sia stato innanzitutto un esponente di spicco del “partito” dei Guelfi Bianchi fiorentini, sia prima dell’esilio a cui fu condannato nel 1302, sia successivamente, fino alla morte a Ravenna. Dante è stato anche priore di Firenze, che era la massima carica politica, e in più occasioni membro dei più importanti Consigli cittadini. Barbero ricostruisce questa fervente attività citando numerose fonti, dall’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436 scrisse una ‘Vita di Dante’, a Boccaccio, passando per il cronista e letterato fiorentino Filippo Villani. Ma lo studioso utilizza anche molti passaggi sia della ‘Commedia’ che di altre opere dell’Alighieri, in particolare del ‘Convivio’ e di ‘Vita nuova’. A questi si aggiungono alcuni documenti notarili dell’epoca e le lettere che scrisse Dante, per esempio all’imperatore Enrico VII o ai suoi nemici Guelfi Neri. E’ un vero e proprio viaggio nella Toscana e nell’Italia del 1300 in cui la lotta politica sfocia quasi sempre in violenze tremende con guerre, omicidi, devastazioni, abitazioni date alle fiamme. Il primo capitolo introduce perfettamente nel ‘mood’, come si direbbe oggi, con il racconto della partecipazione di Dante alla battaglia di Campaldino del 1289, in cui i fiorentini guelfi (non ancora divisi fra Bianchi e Neri) sconfissero gli aretini ghibellini. L’autore tratta poi il periodo degli studi, l’amore per Beatrice, scoppiato ad appena 9 anni, il “misterioso” matrimonio con Gemma di Manetto Donati, appartenente alla principale famiglia dei Neri, cioè ai nemici di Dante. Molto interssante anche il capitolo del processo politico al poeta, che si concluse con una condanna per “baratteria”, cioè per concussione, corruzione e peculato. E poi il periodo dell’esilio, in cui prima Dante chiede il perdono ai Neri e poi si rivolge a loro insultandoli e chiedendo loro di arrendersi e sottomettersi a Enrico VII. Barbero evidenzia inoltre come i Bianchi esuli non esitarono ad allearsi con i ghibellini contro i Neri ripercorrendo le campagne militari dell’imperatore, sceso in Italia per farsi incoronare da papa Bonifacio VIII. Sono infine riportati alcuni curiosi episodi, anche se non certi, come quello riferito da Boccaccio, secondo il quale, alla morte di Dante, i figli si misero a cercare fra le sue carte gli ultimi 13 canti del Paradiso, non ancora pubblicati; non trovandoli si erano quasi lasciati convincere dagli amici a completare loro stessi il poema. Fortunatamente, però, non andò così perché uno dei figli vide in sogno il padre che gli mostrò un nascondiglio segreto, nella sua ultima abitazione a Ravenna, dove furono poi rinvenuti.  (Luigi Conte).

Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere – Laszlo Foldenyi – Il Nuovo Melangolo

Fedor Dovstoevskji, uno dei più grandi scrittori russi, ha passato diversi anni in Siberia, ai lavori forzati. E’ qui che Laszo Foldenyi, uno dei più importanti intellettuali ungheresi contemporanei, lo immagina intento a leggere le Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, in lacrime. Ma cosa fa piangere l’autore de I Demoni e de I fratelli Karamazov? A gettarlo nello sconforto è un passaggio apparentemente banale, in cui il filosofo tedesco definisce la Siberia “fuori dalla storia”. Con queste semplici tre parole Hegel pone Dostoevskji in un mondo completamente avulso dalla visione razionalistica che caratterizza il pensiero moderno, portandolo però ad avere un’epifania: luoghi ‘fuori dalla storia’ sono spazi di libertà, dove l’uomo può ricongiungersi con ciò che la ragione non può comprendere. “Non si può parlare di libertà se infinito e trascendenza si perdono dietro cose limitate”, si legge nel libro, edito in Italia da Il Nuovo Melangolo ma recentemente arrivato anche negli Stati Uniti, dove è stato pubblicato dalla casa editrice dell’università di Yale ed è stato anche al centro di un articolo del New Yorker.  In un momento in cui le scelte di ognuno, di fronte alla pandemia che ha sconvolto le nostre vite, devono fronteggiare qualcosa di cui non abbiamo una perfetta conoscenza e che quindi sfida la nostra ragione, riflettere sui limiti di un approccio completamente cerebrale alle grandi domande della vita può essere salutare. Come può esserlo la capacità di arrendersi all’irrazionalità del miracolo e di ciò che sfugge alla ragione. “La civiltà contemporanea ripone tutta la fiducia nelle soluzioni pratiche e mette, anche senza dichiararlo, fra parentesi tutto quello che minaccia il proprio ottimismo. Eppure tutto l’orrore non è solo un difetto di funzionamento, ma il rovescio di quello che la civiltà odierna ammira con tanto entusiasmo”. (Ilaria Conti)

Open. La mia storia – Andre Agassi – Einaudi

Se continua ancora oggi ad essere tra i libri più venduti, a oltre dieci anni dalla sua pubblicazione, un motivo deve esserci. “Open” (editore Einaudi), l’autobiografia del campione di tennis Andre Agassi, lo statunitense ritiratosi nel 2006, a 36 anni, non è soltanto un best seller sportivo dedicato a un atleta di successo che ha vinto tutto (60 titoli e 8 tornei del Grande Slam). E’ molto di più. E’ una sorta di autoanalisi di un figlio cresciuto in modo infelice che racconta in quasi 500 pagine il tormentato rapporto che lo lega a un padre aguzzino. Mike Agassi, iraniano di origine armena nonchè pugile di dubbie capacità, si mette in testa di fare del figlio Andre un campione di tennis, costi quel che costi. Mike ha altri figli ma intuisce che solo Andre coltiva quel talento che può conquistare fama e ricchezza, riscattando la famiglia intera agli occhi del mondo. E così quel bimbetto di appena 4 anni è costretto ad allenamenti massacranti e interminabili, ogni giorno lo attende la sfida con il “drago”, una macchina, modificata dal padre, che spara palline alla velocità di 180 km orari. Andre cresce così, da solo, senza amici, controllato a vista da quel genitore severo e intransigente. Prova odio per il tennis e per suo padre. Più vince e più odia. E sì perché Andre è davvero bravo, ne è consapevole, ma quel genitore, che non ha mai digerito i propri fallimenti sportivi, lo marca stretto e pretende sempre di più. Andre Agassi con la racchetta spazza via ogni avversario ma deve fare i conti con quel desiderio di ribellione e di autodistruzione perchè la sfida a distanza con il padre è un tarlo che alla lunga lo consuma. E così si ossigena i capelli, si tinge di rosso le unghie, indossa orecchini e catenine, si veste di rosa. L’austero mondo del tennis resta affascinato da questo personaggio stravagante e vincente. Ma non ne coglie il grido di aiuto. Così l’equilibrio psicologico dell’atleta che gioca anche a fare la rockstar ne risente. Forse per colpa dello stress, Andre perde i capelli in modo repentino e opta per un parrucchino. E anche il resto del corpo lancia allarmanti segnali di sofferenza. Questa vita da sportivo sotto i riflettori porta Andre a sposarsi con l’attrice e modella Brooke Shields nel 1997. Due anni dopo il matrimonio è già naufragato. La carriera di Agassi fa passi indietro, le sconfitte sono più frequenti. Anche il pubblico prende le distanze dal personaggio. Ma nel 1999 arriva il riscatto con nuovi successi nei tornei del Grande Slam. Agassi torna a guidare la classifica mondiale (sarà primo per 101 settimane complessive): sullo sfondo c’è una serenità che nasce dalla relazione con Steffi Graff, la numero uno del tennis femminile che gli regalerà due figli e tanto equilibrio interiore. Il ritiro dallo “sport più solitario che esista”, risale al 2006: troppi i dolori alla schiena e alle ginocchia, Agassi perde agli Us Open e lascia per sempre. L’ovazione dal pubblico pare interminabile. “Quando ho cominciato a giocare non sapevo chi ero e mi ribellavo al fatto che fossero i grandi a dirmelo. Penso che i grandi facciano sempre questo errore con i giovani, trattandoli come prodotti finiti quando in realtà sono in fieri”, racconta nel libro. Agassi è stato di parola: chiusa la carriera, con la moglie ha dato vita a una Fondazione che raccoglie denaro per finalità sociali e che coordina una rete di scuole per ragazzi svantaggiati. (Gian Franco Coppola)

Quel che affidiamo al vento – Laura Imai Messina – Piemme

“Quel che affidiamo al vento”, una meta dell’anima per affrontare il dolore.

“Come stai mamma? Sono Hana, sono qui, ti ricordi ancora di me?”, “Piove sempre, inizia a stancarmi”, “Non ti amavo allora quanto ti amo adesso”. Parlare con chi non c’è più, raccontando la propria giornata, le novità, ma anche arrabbiandosi, recriminando questo e quello. O piangere, ridere, tacere. Restare in silenzio fissando l’apparecchio senza neanche alzare la cornetta, che comunque non è collegata alla linea. Il Telefono del vento è li’, su una collina isolata, in una remota regione sulla costa dell’Oceano Pacifico, nel curatissimo giardino di Bell Gardia, per ‘sostenere’ tutti coloro che hanno bisogno di elaborare un lutto, un dolore. Esiste davvero. Di questo luogo unico, intriso di spiritualità parla nel suo libro Laura Imai Messina. Un caso editoriale, distribuito in 20 paesi, un successo che si spiega con la delicatezza estrema della prosa, con la ‘leggerezza’ tipicamente giapponese e salvifica che la scrittrice riesce a trasmettere nell’affrontare le perdite. Anche se non vi fa volutamente riferimento il romanzo è dedicato alle vittime dello tsunami del Giappone dell’11 marzo 2011. Parla sì di morte, quella della figlia e della madre di Yui, la protagonista, e della morte di Akiko la moglie di Takeshi, tutti risucchiati dalla furia del mare, eppure non trasmette mai disperazione, non è mai melodrammatico, anzi infonde un senso di speranza. Il telefono del vento, non è una meta turistica. Non c’è l’indirizzo preciso, non si trova nelle mappe. Non ci si va con la macchina fotografica al collo. E’ una meta dell’anima. E quando su quella zona si sta per abbattere un uragano di immane violenza, senza pensarci due volte Yui corre a proteggere il giardino a costo della sua vita. E ci riesce, a beneficio di tutti coloro che ci vogliono credere, che ogni anno in centinaia ci vanno da ogni parte del Giappone.

Il telefono del vento (in giapponese Kaze-no-Denwa) è nato grazie a Sasaki Itaru (a lui è ispirata la figura del guardiano), che dopo la perdita di un parente, costruì una cabina telefonica bianca nel suo giardino, così da potergli parlare ancora. Poi, dopo il terremoto e lo tsunami del 2011, Sasaki decise di mettere il Telefono del vento a disposizione di tutti coloro che ne avessero bisogno. Da allora il suo giardino a Kujira-yama è diventato un vero e proprio luogo di pellegrinaggio. La sua leggenda nasce così, dal dolore di chi ha subito un lutto. (Annalisa Cretella).

Lungo cammino verso la libertà – Nelson Mandela – Feltrinelli

“E’ stato lungo il mio cammino verso la libertà, ma pur raggiungendo gran parte del risultato sperato. ho imparato che questo cammino non ha mai fine, perché altre montagne occorre scalare dopo aver raggiunto la vetta della prima”….Nelson Mandela, ne è consapevole scrivendo queste parole al termine della sua autobiografia.

Nelle 600 pagine di un racconto ricco di episodi, di fatti, di osservazioni, di riferimenti ai grandi eventi storici lungo l’arco di quasi un secolo, il lettore è in grado di apprendere il dipanarsi di un processo evolutivo da un mondo caratterizzato da forme di oppressione disumane forti di convinzioni radicate, retaggio di una allora diffusa mentalità razzista e predatoria, alla moderna e più consapevole accettazione del frutto di insopprimibili spinte verso la giustizia sociale.

Ma ciò che oggi appare il naturale consolidarsi di un assetto dove la tolleranza figlia della democrazia è considerata una realtà scontata, in realtà è il risultato di un secolo di lotte, di sacrifici, di sofferenze  da parte di uomini e donne eccezionali che, scegliendo di dover pagare un alto prezzo personale, hanno percorso una strada fatta di ostacoli e bagnata di sangue. Così fa

Nelson Mandela nel descrivere al lettore di oggi quanto sia costato dare al suo Sudafrica

l’’abbozzo di una vera democrazia che non faccia più distinzione per il colore della pelle dei cittadini, e renda consapevole chi legge della enormità dei sacrifici sopportati. Si pensi che Mandela ha dovuto passare ben 27 anni della sua vita in carcere, chiuso in una cella dove a stento ci si poteva sdraiare sul pavimento.

Ma non ha mai avuto parole o pensieri di odio o desiderio di vendetta verso i suoi persecutori.

Eletto Presidente della Repubblica dopo più di un quarto di secolo trascorso in carcere, Mandela ha perdonato i suoi nemici, giudici, politici e carcerieri in nome di un obiettivo di conciliazione nazionale.

Nel suo libro, pieno di considerazioni sui fatti e sugli uomini conosciuti, scrive che “le catene imposte ad uno di noi pesano sulle spalle di tutti e durante i miei lunghi anni di solitudine, la sete di libertà per la mia gente è diventata sete di libertà per tutto il popolo, bianco o nero che sia.” Ma c’è una considerazione che Mandela ci riporta e che ha un valore morale universale: “L’oppressore è schiavo come l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità”.

Scorrendo le pagine di un libro di 600 pagine il lettore  potrà continuamente trovare spunti e occasioni di riflessione, talmente frequenti e ricche di saggezza e di umanità da rappresentare una utile lezione per tutti quelli  che non hanno avuto prima l’occasione di accostarsi al travagliato periodo della storia dell’Africa caratterizzato dalla feroce  e spietata applicazione dell’apartheid.

Tra gli insegnamenti che questo volume ci lascia, (edito da Feltrinelli. Serie bianca) c’è soprattutto quello che ammonisce come non si possa dichiarare di voler perseguire una politica volta alla pacifica convivenza tra gli uomini senza applicarla personalmente nella vita di tutti giorni, rispettando ed amando la vita di ogni essere umano. (Maria Letizia D’Agata)

“La società senza dolore” – Buyng-Chul Han – Einaudi editore

L’algofobia al centro del saggio di Byung-Chul Han è la paura generalizzata del dolore che ha come conseguenza quella che il filosofo definisce un’”anestesia permanente”. Vale in ogni campo: dalle pene d’amore diventate “sospette” alla politica dove aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso verso  un “centro diffuso con un effetto palliattivo” che manca di visione e non sa realizzare riforme “che potrebbero fare male”.  Con la solita cruda e cristallina spietatezza, il pensatore tedesco riflette di nuovo sul tema della società della positività e del benessere permanente che tende a sbarazzarsi del dolore interpretato come qualcosa da nascondere, mai verbalizzato, mai reso una passione o una rivoluzione. Han arriva – in questo esponendosi alle critiche di altri pensatori al suo saggio – a mettere il dolore su un piedistallo, definendolo addirittura un “dono” e criticando gli eccessi di medicalizzazione per spegnerlo. “Il dolore regge la felicità – riflette in uno dei passaggi più emozionanti del suo lavoro -. La felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonde felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore”. (Manuela D’Alessandro)

La cura dello sguardo, Nuova farmacia poetica – Franco Arminio – Bompiani

‘La cura dello sguardo, Nuova farmacia poetica’, del poeta scrittore paesologo Franco Arminio – uno degli intellettuali contemporanei più sensati e meno avvezzi all’apparire – è un libro attualissimo (riflette sull’inquinamento ed è uno dei pochi per ora che parla anche di Covid). Ed è un libro particolare: non è un romanzo, eppure ha la potenza delle più intense storie neorealistiche (è alla realtà che attinge); non è un saggio ma descrive in modo impeccabile le dinamiche che stanno dietro i fatti; non è poesia, o meglio non è solo poesia, perché poesie ci sono e gli altri scritti, che poesie non sono, hanno molto di poetico (l’autore definisce il volume “farmacia poetica”). 

Diciamo che questo libro è una raccolta di riflessioni, una sorta di aforismi più strutturati e sviluppati. E queste riflessioni aiutano il lettore a capire perché accadono certi fatti e perché si scatenano certe reazioni emotive e psicologiche e cosa fare per “curare i problemi” che stanno alla base di quei fatti e di quelle reazioni.

Uno dei grandi pregi di questo “piccolo libro”, così lo definisce Arminio, ma “piccolo” non è (circa 200 pagine facili da leggere, profonde nel significato) è il raccontare cosa è successo a noi italiani, e a noi essere umani in genere, durante il lockdown. Il testo, infatti, pubblicato per la prima volta a luglio 2020, riporta riflessioni e analisi su come ci ha cambiati questa traumatica esperienza del Covid 19.

Arminio, anima sensibile e raffinata, in sostanza ritiene che già prima della pandemia, noi fossimo affetti da una forma di “autismo corale”, tutti chiusi nelle nostre paure, nei nostri pregiudizi, sicuri che la nostra prepotenza verso il pianeta sia giusta e inevitabile. E la pandemia ha radicalizzato questa tendenza. Il poeta però ci fa capire che questo atteggiamento porta all’isolamento tra persone e alla frattura tra uomo e natura (da qui le riflessioni sull’inquinamento dell’aria, dell’acqua, i cambiamenti climatici…). E individua una soluzione: “La cura è nello sguardo”, scrive, “chi guarda bene, si ammala più difficilmente. Le cose che entrano dagli occhi possono essere farmaci”. E se guardando vede cose non belle, “vuol dire che devo guardare meglio”, sostiene, dando un punto di vista, appunto, non banale. 

In questo testo ritorna anche quello che è uno dei cavalli di battaglia di Arminio: la paesanità. Cioè la vita di paese, semplice e umana, che ha la potenza di salvare e guarire (“I paesi sono posti grandi”, “qui non raccolgo consensi, ma respiri”). 

Il poeta però fa dei distinguo tra i paesani d’un tempo, “cafoni” ma “solidali”, “ricchi di saperi, dignità, cultura antica”, e i paesani di oggi, “inzuppati di sfiducia, rami senza radici, fringuelli dell’insolenza”. “Bisogna arieggiare i paesi portando gente nuova”, riflette, “ci vuole una comunità ruscello, più che una comunità pozzanghera”. 

In genere conclude: “Se non costruiamo nei prossimi decenni un mondo di persone che amano leggere, ascoltare, amare le differenze tra luoghi e creature, vuol dire che siamo già caduti in una sorta di fascismo planetario in cui non avremo un duce, ma miliardi di individui in camicia nera pronti a dare la caccia agli svagati e ai sognatori che non rispettano le regole”. Perché un tempo, non rispettare le regole, era uno dei modi per progredire a livello sociale, collettivo. Oggi è una responsabilità che nessuno più vuole accollarsi. (Danilo Di Mita)

Molise criminale: quello che non t’aspetti – Giovanni Mancinone – Rubettino

Quello che gli italiani non sanno su un crocevia di affari, omicidi, armi, droga, terroristi e latitanti: La ventesima regione sconosciuta quella raccontata da Giovanni Mancinone, vice capo redattore Rai in pensione, nel libro edito da Rubettino. Tanti episodi che si susseguono e si intrecciano con il vissuto quotidiano, ma che spesso varcano i confini regionali e nazionali, fino a Salvatore Mancuso Gomez, a Bogotà, in Colombia, dove la droga si produce e si commercializza a tonnellate e i soldi vengono spediti altrove per essere riciclati dentro ai borsoni in pelle che viaggiano nel mondo. Molise criminale è un archivio di fatti raccontati in punta di penna: sindaci e avvocati uccisi in circostanze particolari; fabbriche svuotate e femminicidi consumati in modo atroce; l’eolico, i rifiuti e gli affari illegali; e poi ancora l’arresto del ministro Tanassi per tangenti, la presenza di Vito Ciancimino a Rotello, il maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele. (Giuseppe Di Pietro)

Piranesi – Suzanne Clarke – Fazi

I suoi lettori hanno dovuto aspettare 16 anni, ma ne è valsa la pena. “Piranesi”, l’ultima opera della scrittrice americana Suzanne Clarke edita da Fazi editore, è un libro sorprendente, inserita dal New York Times tra i 100 migliori libri del 2020. Il lettore viene portato in una immensa casa con saloni e statue allagati periodicamente dalle maree o invasi dalle nuvole, di cui l’unico abitante è il protagonista, Piranesi. Un mondo onirico e labirintico, che sfugge a tutte le regole della logica, e inizia e finisce all’interno di una casa, con centinaia di saloni che si estendono per chilometri. Il solo vivente con cui Piranesi ha dei contatti è ‘l’Altro’, una persona che lo va a trovare due giorni alla settimana e con cui si confronta sulla ricerca della “grande e segreta conoscenza”. Gli altri 13 umani sono cumuli di ossa, di cui Piranesi si prende cura. Il racconto è in prima persona, in forma di diario, e il protagonista non ha alcuna memoria del suo passato fuori dalla casa. Piranesi non è neppure il suo vero nome, è come lo chiama l’Altro: lui non ricorda di averne mai avuto uno. Giorno dopo giorno, il protagonista esplora i saloni e prende nota nei suoi diari di tutti i dettagli, le statue, le maree, le nuvole. E’ convinto che la casa gli fornisca tutto il necessario per sopravvivere e di essere il suo figlio ‘prediletto’. Con il passare dei giorni, però, emergono sempre più indizi che mettono in crisi le certezze di Piranesi e memorie di fatti che la sua mente aveva cancellato. L’arrivo di ’16’, sconosciuto rivale dell’Altro, farà poi crollare definitivamente il mondo che Piranesi si era ‘costruito’. (Fabio Florindi).

Gli scacchi, la vita – Garry Kasparov – Mondadori

L’esistenza come una grande scacchiera in cui muoversi con attenzione, mossa dopo mossa, fino allo scacco matto finale. La biografia di Garry Kasparov, ‘Gli scacchi, la vita’, è un grande omaggio a uno dei giochi più antichi e nobili del mondo ma, allo stesso tempo, anche un manuale d’istruzioni per affrontare i problemi dell’esistenza e un invito a non arrendersi di fronte alle angherie del potere dispotico. Di certo è un’affascinante avventura in cui le grandi partite, ricordi di luoghi e volti, spesso appena accennati, che si perdono nell’inchiostro, si mischiano questioni etiche, filosofiche e politiche. 
Scritto nel 2007, il libro sembra l’atto finale di un lungo viaggio che per Kasparov ormai volge al termine. Una sorta di lascito testamentario all’imbocco di un bivio. Un libro che segna la fine di un’epoca e, insieme, il punto di partenza per una nuova battaglia, la più difficile. Dall’altra parte del tavolo, infatti, ci sarebbe l’influenza e il dominio in Russia di Vladimir Putin.

L’autobiografia esce proprio negli anni in cui la partita elettorale in Russia si fece più aspra. Kasparov, a capo di tanti piccoli partiti e movimenti, tentò da outsider di rovesciare le sorti e i destini del suo Paese. Un’impresa titanica anche per un lottatore, testardo e talentoso, come lui. Per l’ex campione del mondo, nella vita come nella politica, il dogma è sempre lo stesso: gli scacchi sono una grande metafora di, trasparenza, luce e democrazia pur restando “lo sport più violento che esista”. Per giocare, insomma, “serve che ci siano due contendenti con le stesse risorse disponibili” e con Putin questo non può accadere. Il libro però parla a tutti, con linguaggio universale, e con un messaggio di fondo che emerge in ogni riga: gli scacchi e le loro strategie sono “la chiave per affrontare e vincere, ogni giorno, le sfide che la vita propone”. L’ambizione dell’autore, insomma, oltre a dare un’immagine reale e dura del mondo contemporaneo, è quella di mostrare come il pensiero strategico, la creatività e le tattiche possano essere applicate nella quotidianità per superare ogni ostacolo, piccolo o grande che sia. (Alessandro Frau)

Sidi – Arturo Perez-Reverte – Rizzoli

Un libro scritto in un anno e mezzo ma pensato e meditato una vita intera. Era solo un bambinetto, infatti, l’autore Arturo Perez-Reverte quando nella grande biblioteca del nonno “conobbe”  El Cid, il guerriero Rodrigo Díaz de Vivar. E alla fine la sua personale visione dell’eroe nazionale della Reconquista si è cristallizzata nelle oltre 400 pagine del volume Sidi, appena uscita con Rizzoli con la traduzione di Bruno Arpaia. Un romanzo di “frontiera” come ama definirlo lo scrittore che porta il lettore in quel mondo di battaglia all’ultimo sangue, di sudore, di polvere e caldo, di nobile codice di comportamento.

Perez-Reverte, reporter di guerra e prolifico autore tradotto in oltre 40 Paesi, è conosciuto in Italia per la saga del Capitano Alatriste e – per gli appassionati di serie tv – è anche lo scrittore del romanzo omonimo da cui è tratta La Regina del Sud. Le vicende di El Cid, inoltre, sono in questo periodo anche sul piccolo schermo, con l’interpretazione di Jaime Lorente, già protagonista de La casa di carta.

Ma l’avvincente rilettura di Perez-Reverte, che si focalizza su una delle tante imprese del condottiero spagnolo (il primo esilio e l’accordo con il re musulmano di Saragozza, al Mutama) è un racconto sul coraggio, la fedeltà, l’onore, coniugati in chiave marziale, ma anche sulla leadership e il rispetto per l’altro. La figura mitica del Cid riemerge con rara forza in un affresco a tinte forti, ma fascinoso e trascinante. In tempi bui per la penisola iberica, la forza delle armi, i giochi delle alleanze e gli inevitabili tradimenti mescolavano gli interessi di cristiani e musulmani e le frontiere, fisiche, politiche ma anche storiche e psicologiche, erano il mobilissimo terreno di confronto dove solo pochi, come il Sidi, riuscivano a non perdersi. (Filippo Frignani)

La tregua – Primo Levi – Einaudi 

Può sembrare singolare, forse anche provocatorio, scegliere come libro “per l’estate” quello di un ex deportato ad Auschwitz che racconta il suo lungo e periglioso ritorno a casa dopo la liberazione. Ma ‘La tregua’, il libro di Primo Levi che lo rivelò al mondo nel 1963 come grande scrittore, oltre che testimone preciso e lucido del dramma epocale vissuto, è anche un libro di avventure: un racconto picaresco e a tratti persino ironico sugli incontri, i posti visitati, gli equivoci linguistici e culturali, i treni presi e quelli persi, lungo binari spesso interrotti a causa dei bombardamenti, tra popolazioni a volte impietosite dai deportati ancora con le sdrucite casacche del lager, a volte palesemente ostili. Fino al clou drammatico, quando il convoglio pieno di reduci arriva in terra tedesca e incontra i prigionieri nazisti, pallidi fantasmi dopo il delirio di onnipotenza, costringendoli a strisciare per prendere un po’ di pane. Scene potenti, che Primo Levi alterna a momenti di pura commedia: la “trattativa” per una gallina con dei contadini russi con i quali comunicare a parole è impossibile, l’avventura galante finita male di Cesare, il romano di Trastevere, le farse messe in scena dall’improbabile gruppo di reduci nella ‘Casa rossa’, l’ultimo ricovero russo prima della partenza verso occidente, l’immancabile generale italiano “litigioso e variopinto come un gallo” . Il ritorno alla vita di un mondo sconvolto dalla guerra, popolato, scrive Primo Levi, di personaggi “scaleni”, asimmetrici, senza più una casa o radici, scampati all’immane strage “che ci ha sfiorati e miracolosamente risparmiati”. Il gruppo di ebrei italiani che rimane con Levi fino all’arrivo in patria, strani ebrei che non parlano yiddish e organizzano grandi spaghettate, attraversa l’Europa in fiamme con tratti da commedia all’italiana, che proprio quando il libro è stato scritto si imponeva nel cinema tricolore e non solo. Insomma, come osservato da diversi critici, se il capolavoro, breve e folgorante, “Se questo è un uomo”, scritto e pubblicato pochi mesi dopo il ritorno nella sua Torino, per Primo Levi è una sorta di Iliade, La Tregua è l’Odissea, un libro da gustare anche come romanzo d’avventure in un continente precipitato temporaneamente in un’età pre-moderna, dove l’arte di arrangiarsi diventa fondamentale per sopravvivere nel vero senso della parola, e un paio di scarpe fanno la differenza tra la vita e la morte. Come insegna all’autore il personaggio più indimenticabile, il greco Mordo Nahum, che quando il giovane chimico torinese gli fa notare che la guerra è finita, ed è il tempo finalmente di leccarsi le ferite e di fare i conti con un’esperienza indicibile, risponde “memorabilmente”: “Guerra è sempre”. Questa consapevolezza esistenziale, laica e tragicamente vera, permea le pagine del romanzo, e fa capolino tra i mille aneddoti e racconti con la forza della grande letteratura. (Paolo Giorgi).

AGI – Agenzia Italia 

Redazione Corriere di Puglia e Lucania

Corriere Nazionale

Radici

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