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Lo straordinario successo della scrittura di Andrea Camilleri e delle storie investigative del commissario Montalbano

di Rossella Cerniglia 

Le ragioni del successo di un libro, di un personaggio letterario o di un autore non sono in genere dovute al caso o alla fortuna, se non forse in minima parte. Ma ci devono essere delle ragioni più concrete e reali che segnano il loro destino di   fortuna o il loro insuccesso.

Nato a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, nel settembre del 1925, Camilleri ha conosciuto un’esplosiva – seppur tardiva notorietà – che a settant’anni più non si aspettava. Un successo attribuibile, non al caso, ma ad altri più complessi e sofisticati fattori e meccanismi, che certamente un conoscitore del mondo culturale, teatrale e televisivo, come era appunto il nostro autore, non poteva non conoscere e non aver considerato.

Questo improvviso straordinario seguito di pubblico si è sostanzialmente concretizzato, e rinsaldato- rispetto alla tiepida accoglienza dei suoi primi romanzi – a partire dalla pubblicazione delle storie investigative di un originale commissario di polizia, il cui nome – a tutti noto – è Montalbano. Un successo, come dicevo, tardivo, ma confermato e dilatato dalla fortunata serie televisiva, dedicata al personaggio, messa, per l’occasione, in onda dalla Rai.

In questi ultimi decenni, l’indice di gradimento è stato così alto e travolgente, che Camilleri ha finito per affermarsi come il “caso letterario” degli ultimi decenni del Novecento.

Fino ad allora la sua attività era stata  quella di regista e sceneggiatore teatrale e televisivo di opere di grande valore e impatto sul pubblico, e di drammi radiofonici che hanno appassionato intere generazioni.

Per diversi anni ha inoltre insegnato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Ha  inoltre scritto, sceneggiato e diretto innumerevoli programmi culturali sia per la radio che per la televisione: opere di Beckett, Jonesco, Pirandello, De Filippo, e ancora  di Giraudoux, Strindberg, Eliot, Adamov, Majakovskij, sono state portate in scena – grazie alla sua preziosa collaborazione – dalla allora neonata Rai, attraverso un progetto di diffusione culturale che passava anche per il godimento di milioni di italiani. Ad esso si affiancavano anche le serie fortunatissime di “gialli” – a partire da quelle seguitissime dell’ispettore Maigret, e del tenente Sheridan – e di altri grandi romanzi sceneggiati.

  Ma nei primi anni della sua carriera letteraria, nulla lasciava presagire la grande fortuna e notorietà che lo avrebbe investito in seguito, e quasi all’improvviso.

Il suo romanzo d’esordio,  Il corso delle cose, primo della serie dei romanzi cosiddetti “storici”, cui seguirono Un filo di fumo e La strage dimenticata, non conobbero infatti un grande successo.  Ed è solo dopo un periodo di intensa attività come regista teatrale, durato ben otto anni, che nel 1992, con la pubblicazione di La stagione della caccia, Camilleri ha un inaspettato successo che continua a replicarsi nelle successive pubblicazioni: La bolla di componenda, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, La mossa del cavallo, ed altre ancora.

Con La forma dell’acqua, del 1994 – edito, come la maggior parte dei romanzi camilleriani, da Sellerio – fa il suo ingresso, nella scrittura di Camilleri, il personaggio che decreterà la sua grande fortuna: il commissario Montalbano, il cui nome si deve alla conoscenza e alle conversazioni parigine tra il nostro autore e lo scrittore spagnolo Manuel Vàzquez Montalbàn, anch’egli autore di romanzi polizieschi. Ed è proprio in omaggio a questo autore, che Camilleri vorrà chiamare il suo commissario “Montalbano”.

Andrea Camilleri si è rilevato, nel tempo, scrittore assai prolifico: centinaia di pubblicazioni hanno visto la luce attraverso la sua penna, a partire soprattutto dai suoi primi conclamati successi che lo hanno indotto a intensificare la scrittura. Ma non possiamo che limitarci,  in queste brevi considerazioni, che ai titoli più noti al grande pubblico, e cioè, soprattutto, a quelli cui è legata la sua improvvisa affermazione e la travolgente popolarità.

Del 1995 è Il gioco della mosca, e dell’anno successivo Il cane di terracotta, e poi Il ladro di merendine, La voce del violino, i trenta racconti Un mese con Montalbano, La gita a Tindari, Gli arancini di Montalbano, La scomparsa di Patò, Il giro di boa…E moltissimi altri – tra cui vicende investigative che vedono retrospettivamente impegnato il giovane Montalbano – una Biografia del figlio cambiato su Luigi Pirandello, alcuni racconti su artisti come Renoir, Guttuso e la sua Vucciria, e altri – editi da Skira – e ancora L’odore della notte, Il re di Girgenti, La  paura di Montalbano,  La regina di Pomerania e altre storie di Vigata, o anche fiabe e racconti per i nipotini, ecc. ecc. E certo l’elenco sarebbe interminabile.

Le storie del commissario Montalbano, sono ambientate a Vigata, un paese del tutto immaginario, creato dalla fantasia dell’autore. E tuttavia un paese tipico della Sicilia, in quanto racchiude e concentra in sé gli aspetti peculiari della sicilianità: ambiente che si fa emblema dello spirito e della mentalità delle sue genti, palesando di esse pregi e difetti che le sono propri, ma pure la sua popolare ed ancestrale sapienza della vita.

Una caratterizzazione che richiama certo la sicilianità, effusa da altri scrittori isolani nelle loro opere – o perlomeno in alcune di esse, com’è il caso del loro capostipite in tal senso, Giovanni Verga, ma anche di Capuana, Sciascia, Vittorini, Brancati, Pirandello, e ancora Bufalino, Tomasi, Consolo, Bonaviri, ed altri.

È pertanto uno degli elementi connotativi di grande fascino e rilievo, proprio perché appoggia la sua sostanza di fondo sia sul reale, sia sugli innumerevoli richiami letterari all’unicità culturale di un popolo, dovuta alla sua storia e ai caratteri di insularità della sua terra, capaci di sprigionare il grande fascino che tale emblema condensa.

Ciò che avvince nella scrittura camilleriana – e ne costituisce il metro che dà ragione della vasta notorietà conquistata in maniera tanto imprevedibile e improvvisa – è il fatto che l’uomo interamente vi aderisce.

L’uomo Camilleri, infatti, si evince da ciò che scrive e che dice. Perché egli è la sua scrittura, e la sua personalità si traduce interamente in essa. Non vi è iato, che divida il suo mondo dalla rappresentazione che egli ne dà, dai caratteri della sua scrittura, come avviene in altri autori che vivono una vita separata dalla loro stessa arte, che la vivono in modo distaccato, contemplandola solamente, a distanza.  Egli vi è invece totalmente immerso, e in questa immersione consiste la verità della sua scrittura, che è sempre sanguigna, corposa, intrisa di elementi pregni di vita e carnalità.

Come Simenon – che ama e profondamente ammira – è assiduo lettore dei fatti di cronaca,  assiduo “cercatore” dentro il mondo della quotidianità: quello del quartiere, della strada, della gente che fortuitamente vi si incontra, coi pregi e i difetti che fanno la loro fisionomia, la loro anima, l’essenza che li costituisce in proprio. “Mi piace inzupparmi di realtà” afferma qualche volta. E ancora: “Ho poca fantasia, penso che i fatti reali siano sempre più imprevedibili delle trame degli scrittori” .

   E questo attingere alle stranezze della vita, presenti nel suo farsi quotidiano, ci dà la misura del fondersi del vero e dello straordinario nelle sue storie e nella sua scrittura. La quale, nella promiscuità della lingua, mostra al contempo normalità ed eccentricità coniugate con grande maestria.

Egli stesso confessa, infatti, che la lingua dei suoi romanzi è quella stessa che usava nelle conversazioni affettuose col padre quando gli parlava dei suoi lavori e della sua scrittura. Forse, in un momento particolare, fu proprio il padre a suggerirgli di aggirare la sua difficoltà di usare l’italiano nelle sue opere, sostituendovi questa lingua promiscua, “bastarda” – come egli stesso la definì – ma certamente più rispecchiante e più vera della realtà che sentiva sua. Un misto di italiano e  dialetto siculo dove le parole “significano” più e meglio, perché si vestono di  sensi plurimi in virtù del fatto che – come in altra occasione ebbe a dire – “Di una tal cosa l’italiano serviva ad esprimere il concetto, della stessa il dialetto descriveva il sentimento”.

Il che lascia presupporre che, nel suo modus essendi, nella sua persona, le due lingue si completavano a vicenda nell’esprimere la verità che gli apparteva. Tanto più che nel dialetto risiede l’anima del discorso, della parola, della frase.  Il mescolarsi e intersecarsi di esse veniva così ad esprimere la connessione profonda di cuore e intelletto.

E, in effetti il legame con l’ancestralità del dialetto è di matrice affettiva, radicale e profonda; quello con l’italiano concerne la sfera dell’intelletto che si allarga alla comprensione di conoscenze e valori altri, rispetto al mondo dell’affettività delle origini.

  Da questa partecipazione alla vita reale e dalla estrinsecazione di ciò che sentiamo più nostro, nasce dunque una peculiarità che è propria non solo della Sicilia, ma di un Paese meticcio come è il nostro: un linguaggio ibridato che porta i segni delle lunghe stratificazioni culturali, e di realtà che ancora vivono dentro di noi.

Anche in Camilleri, l’idioma dialettale si lega al suo passato – a quello dell’infanzia e delle figure care che l’hanno costellata, alla storia, materiata di personaggi e luoghi, a un paesaggio ancestrale e tipico nel quale si innestano ricordi molteplici di vita – elementi introiettati e viventi in se stesso come tessuto dell’anima, ovvero matrice primigenia di cui avverte i tenaci legami e nella quale ritrova le radici profonde del suo stesso essere.

Nelle sue narrazioni, verbalità e fraseggio hanno, pertanto, la dote eccelsa della naturalità, non sono ricercati, non  studiati, sono semplice schiettezza dettata dalla vita che l’autore sente muoversi in sé e nel mondo intorno a sé. Si mostrano intessute di tutte le cose più semplici, e perciò più vere, più naturali, ed essenziali all’affiorare della verità.

   Una nuda verità, scevra di fronzoli e abbellimenti retorici, alla quale, anche il grande Simenon, era fedele nella sua scrittura. Di lui, Camilleri aveva  prediletto questa semplicità che si vestiva dell’essenzialità della parola, sempre unica e insostituibile nella di lui narrazione e  scrittura.

E tale è anche la lingua dei personaggi camilleriani, che niente ha di letterario. E pare anzi che essi colano vita da ogni poro, individui presi dalla strada, e frutto dell’osservazione non distaccata, ma partecipe del mondo.

Tuttavia, non si tratta mai di personaggi “a tutto tondo” – e come asserisce lo stesso Camilleri – “sono maschere fisse, un teatro di pupi”. Anche lo stesso Montalbano rimane assolutamente fedele a se stesso, personaggio definito una volta per tutte, di cui ci diviene familiare il parlare, il fraseggio sempre così fedele a se stesso, a partire da quel “Montalbano, sono!” delle sue presentazioni telefoniche.

Ma ciò che più piace in lui, è il suo essere profondamente umano, con vizi e virtù, e piccole manie, e con una carica di innata simpatia che nasce proprio dall’esprimere, con estrema naturalezza,  queste caratteristiche profondamente umane.

Di lui non si conoscono neppure i tratti esteriori, ma basta la fisicità della sua lingua, l’ironia – che è poi, nella fattispecie, l’intelligente lettura del mondo da parte di Camilleri – alla quale si può aggiungere una dose marcata di sicurezza e di fondamentale onestà – che scavalca talvolta le righe, e non è mai acquiescente o pedissequa – e infine una coerenza caratteriale che lo contraddistingue – anch’essa come l’ironia, tra le virtù più cospicue dello stesso Camilleri – a decretarne, in maniera indelebile, la fisionomia.

Nelle sue inchieste, relative a crimini di mafia, rapimenti, omicidi, e casi di malaffare tipici dell’ambiente siciliano, dimostra profondo intuito e un sicuro acume investigativo che gli conferiscono – insieme alle doti già citate – un particolare carisma, e gli ottengono da subito il plauso del pubblico e l’acclamazione della critica, soprattutto televisiva.

Si tratta, in realtà, di ingredienti sapientemente dosati, atti a costruire un personaggio particolarmente gradito a un così vasto pubblico.

Naturalmente, come Montalbano, anche gli altri personaggi sono presentati una volta per tutte, e se vogliamo, alla maniera di un realismo verghiano che opera attraverso il dialogo; ma su questa scelta può aver avuto ragione anche la lunga esperienza di teatro del nostro autore.

In ogni caso, rimane un’autopresentazione coerente che conferma, di volta in volta, le caratteristiche del personaggio, le sue doti, i difetti, le peculiarità – anche se  in maniera piuttosto schematica, che rasenta il cliché e lo stereotipo, o comunque, nei canoni di un realismo/verismo dai tratti talora bozzettistici.

Oltre all’attrattiva che le storie poliziesche, di per sé, esercitano su molti lettori, caratteristiche  di alto gradimento, sembrerebbero l’intreccio ben articolato della narrazione con una sapiente induzione di suspance nei momenti salienti della storia, come pure l’arguzia e l’ironia dell’autore, che, di quando in quando, getta i suoi lampi di sapida intelligenza sulle vicende: un felice dosaggio, insomma, di elementi di fascino e godibilità universali.

Ma al di là di questo straordinario successo, e della grande notorietà conquistata principalmente con le storie del commissario Montalbano, Camilleri è scrittore proteiforme, di interessi variegati e di vasti orizzonti, e le sue opere recano tutte l’inconfondibile sigillo della sua personalità.

Pertanto, è da apprezzare interamente l’uomo Camilleri, per molteplici ragioni: per la sua ampia cultura ed umanità, per un’analisi attenta e costante dei fenomeni del mondo, e per una profonda coscienza critica, intimamente connessa all’esperienza: egli è stato, non solamente, un prolifico romanziere e un letterato amante della bella e non artificiosa scrittura, ma anche un accorto e generoso pensatore ricco di umanità, e capace di insegnamenti  sani, veritieri e profondi.

Molto abbiamo imparato da lui, e dovremo ancora imparare: primo tra tutti l’apertura a una speranza, che non deve mai abbandonarci, nonostante il buio futuro che sembra profilarsi, ma guidarci semmai verso un avvenire di pace e di riconquista dei valori più alti e più sani che costituiscono il vero senso della nostra umanità.

Rossella Cerniglia

Redazione Corriere Nazionale

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