Principale Arte, Cultura & Società La ragione é la virtù dell’intelligenza nella consapevolezza del male nella storia

La ragione é la virtù dell’intelligenza nella consapevolezza del male nella storia

di Pierfranco Bruni

Appoggiare le spalle alla ragione è una potenza che si veste di volontà. Senza la volontà di potenza saremo dei sopravvissuti e sopraffatti dagli eventi e dalla norma.

Eventi e norma sono la brutalità del buio che  non lascia intravedere alcun chiaro.

Siamo selva e siamo un oscuro

Ovvero: “Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti e tanto ami Firenze da patire, per amor suo, ingiustamente

l’esilio, appoggio le spalle del mio giudizio più alla ragione che al senso”. (Dante Alighieri, “De Vulgari Eloquentia”, I, 6).

Lo scetticismo ha bisogno della ragione. Forse anche il o del  contrario.

Tuttavia il sentimento non vale alcun gioco se non è l’intelligenza a smuovere la scacchiera dal tavolo e far tremare il tavolo oltre a dare scacco al Re e il Re alla Regina.

Il senso non fa vincere la vita e non strappa la morte dalla vita.

Piuttosto è la ragione che crea la ragionevolezza e stupisce lo stupore stesso dell’incavo del cuore proiettandolo nella non storia.

Non è il sentimento che radica. Il sentimento obbliga il sentimentalismo a reggere il gioco delle illusioni. La ragione apre al radicalismo del paradosso superando ogni dottrina data.

L’invenzione religiosa è solo un assurdo antropologico e la fede è la più spietata vendetta per offendere l’intelletto costringendo a recepire un ricatto  come una carità o l’assoluto della pietà.

Bisogna sconfiggere la pietà per restare vivi senza salvagente o salvacondotto.

Bisogna essere consci che il male é nella coscienza ed è una tempesta senza riscatto.

Uscire dalla pietà ci rende umani perché ci pone veri e reali davanti al male alla crudeltà alla finzione devastatrice. Non ci rende deboli e tanto meno offesi.

Sentirsi offesi é cedere alla leggerezza.  Si usa la fede per intimorire e porre la vita di fronte alla morte. Ma è la morte che vince sempre. Perché infatti alla fine si muore sempre.

La fede non ha sconfitto la morte e neppure il dolore. Siamo strumento del dolore. Ha costruito il castello palazzo metamorfosi. Ovvero l’assurdo dell’oltre vita che non si conosce.

Tutto ciò che non si conosce non esiste.

Tutto ciò che conosciamo esiste perché è con noi. Il dentro di noi è una scarsezza di contenuti. È vento di turbine o immaginario senza il contrario della ragione.

Non si misura non si calcola non si tocca l’oltre vita. Ma ci serve. Perché ancora abbiamo bisogno di illuderci?

Per non morire da vivi con intelligenza conoscenza  ragione perseveranza.

Persino la speranza è il non voler affrontare il male presente. È rimandare. La speranza ha la virtù di allontanare il male dolore del quotidiano. Chi spera è già un perdente.

Spe- ra-re. Una rarefazione dell’anima evanescente. Non siamo immortali. Allora  perché sperare? Perché avere fede? Perché trasformare il religioso in un credo?

Siamo occupati da ombre perché non riusciamo a vedere il tempo dello spazio che è nel tempo della non storia.

Abbiamo bisogno di essere spietati per non farci ingannare dalla vita che finisce.

Allora il senso non ha senso ma la ragione ha ragione.

Perché negare la ragione? Fede e ragione insieme sono il demone che diventa sottosuolo del diavolo. Fede e ragione sono il diabolico invasato dalla negazione della morte.

Insomma se la fede non sconfigge la morte che senso ha? Dio è soltanto follia.

Ma una follia pazza in un precipitato della disperazione. Io non ho fede perché non mi lascio convincere dal diabolico teologico misfatto dalla congiunzione tra fede e ragione illusione.

Voglio credere nella vita e non nella illusione della vita oltre. La vita

oltre è altro rispetto al caos di una fede che illude. Il profeta non ha fede. É mistero. Ha mistero. Perché il mistero è deserto e separazione.

È profezia al cader delle stelle. Ma questo cader di stelle non solo è percepito ma è visto. Il visto è conoscenza. Sto con la conoscenza. Ovvero con il conoscere senza l’illusione.

Cono-senza!

E Dante? Borges ricalcò il tempo nell’eterno finito. Lo spazio della parola è un incidere il solco nel silenzio del dubbio. Che senso ha parlare? Scrivere?

Il silenzio è tragicamente immenso. Dante riporta sulla scena il male, anzi il diabolico.

Non si sarebbe altrimenti affidato a un romano, latino, (appunto Virgilio), servo dell’impero di Augusto per farsi, metaforicamente, guidare nel passaggio tra caos e labirinto.

Virgilio non è profezia e tanto meno provvidenza.

È uno scrittore, al contrario di Ovidio, che scrive un’opera per elogiare un Impero e un imperatore. Ovvero non è un uomo libero. Resta un

servitore della storia arida. L’ironia straordinaria di Dante si disputa proprio intorno ad alcune figure – personaggi. Beatrice è lo spettro-specchio.

Ma la questione politica identitaria è fondamentale in Dante, la quale non è commedia,  bensì tragico percorso che nasce in una selva senza luce per concludersi, dopo aver ingannato le stelle danzanti, in esilio.

L’esilio è il diabolico che si maschera nel male della storia soprattutto quando il male stesso diventa teologia dell’abominio.

Dante è crudele perché è vero. Il vero è la complicità seria tra scetticismo e ragione. Dante non ha bisogno del sentimento.

Ma di conoscenza. Una conoscenza che è virtù. Se non si conosce si è soggiogati. Immensamente tragico e non goldoniano é il cammino nel mezzo.

È Nietzsche che comprende che la Grecia mancata in Dante è la paratassi di una terribile commedia. Ma la commedia può avere del terribile?

No. La commedia è  malinconico sguardo nell’attesa senza stupore. L’attesa non esiste nel momento in cui la morte prende il sopravvento su tutto.

Dante non salva nessuno. Coloro che vengono sacrificati nella salvezza hanno il passo della discordia del sarcasmo ironico e beffardo.

Santa Lucia è uno strumento di sfida nella notte. Maria è la purezza della verginità persa. Le tre stelle finali di ogni cantica sono il gioco perverso tra il buio e la selva oscura in profezia di una inutilità della speranza chiarore. Dante è un tragico. Non una commedia. Non chiede la pietà ma mostra Ugolino come il magistero di un uomo che non ha l’umano.

Già, perché l’umano troppo umano è diventato l’ecce uomo in Croce tradito sempre. Il tradimento è la consapevolezza della non affidabilità. Dante non si fida. Dice di affidarsi.

Ma sono due aspetti diversi. Si affida per tentazione ma l’attrazione è altro. È un fedele in amore. Non nella Croce. È conoscenza per decisione di virtù.

È un condannato senza processo alcuno, perché è uomo libero. Il resto è scena letteraria, anzi scenario. Comprende la sua dannazione.

Virgilio resta uno strumento di parvenza. Ma il vero viaggio è Ulisse. L’ingannatore non il profeta dell’ipocrisia. Non si fida perché non ha fede. Non ha fiducia.

Si affida per superare il medioevo dell’anima.

È inattuale? Non è assolutamente moderno. È profondo sottosuolo e non debolezza di leggerezza nel e del relativismo. È assoluto nella solitudine.

È il testimone della morte che ha attraversato la vita e per non essere riuscita, la vita, a sconfiggere la fine e il senso della fine recita l’inferno che trasporta nel paradiso per mezzo della purificazione.

Metafore che riempiono di stupore la metafisica della scomparsa.

L’esilio, infatti, è la più travolgente metafisica della scomparsa. Non esistono descrizioni commenti analisi. Non hanno appunto senso quando si resta con le spalle poggiate sulla ragione.

Il senso stesso è uno spazio incommensurabile del vuoto. Il nulla. È tragico proprio per questo. Alle ombre sostituisce la selva.

Alle stelle l’esilio. Il terribile e il male consiste nel fatto che con un bacio si ama. Con un bacio si è Giuda maltrattato per aver commessociò che era designato.

Con un bacio si accoglie. Con un bacio si saluta nel distacco di oltre limite.

Si tradisce sempre con un bacio. Il terrificante del terribile è il bacio che l’allegra comparsa del male scava nelle vite. Il male non é la perversione.

È la constatazione del reale. Tale constatazione é la necessità di accogliere la solitudine. Si tradisce sempre per mancanza di eredità. Il bacio non salva.

Il bacio é semplicemente galeotto.

La ragione é la virtù dell’intelligenza nella consapevolezza del male che è destino di conoscenza. I

n altri sguardi la ragione senza maschera  é la virtù della conoscenza  nella consapevolezza del male nella storia.

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