Principale Arte, Cultura & Società Lavinia Frati e l’impulso quasi quotidiano di scrivere poesia

Lavinia Frati e l’impulso quasi quotidiano di scrivere poesia

Quel che mi interessa in questa sede non è trattare della vocazione poetica, della formazione culturale, dell’apprendistato, dell’immaginario di Lavinia Frati.

Non voglio disquisire sugli eventuali debiti contratti con i grandi del passato. Ciò che so di lei è il bisogno di confrontarsi e l’impulso quasi quotidiano di scrivere poesia. Questo mi basta. Inoltre ritengo che l’artista dovrebbe essere una persona d’alto sentire e questo è quello che penso di Lavinia.

Per Picasso “il reale è ciò che vede la maggioranza”. Posso pensare che la Frati abbia scelto da tempo di stare con la minoranza e di dare voce a quella che stupidamente viene considerata diversità. Oserei dire che lo scotto che l’artista paga molto spesso è quello di essere “diverso” o di sentirsi “diverso”.

La ragione è semplice: in questo tempo in cui tutti sono prodotti in serie e con lo stesso marchio di fabbrica gli artisti si distinguono. Sfuggono alle regole e al livellamento di massa. Rischiano molto perciò.

Il rischio minore è quello di essere presi per pazzi. Eppure gli artisti dimostrano spesso anche di saper rinascere continuamente dalle ceneri.

La Nostra si caratterizza per la sua capacità di autooblazione, cioè per la sua capacità di offrire sé stessa e le sue parole agli altri.

Questa è una qualità che può tornare utile perché ogni lettore vuole riconoscersi nel poeta. Se dovessi classificare la Frati o etichettarla potrei affermare che non è una poetessa di ricerca (è distante da un modo di versificare che aspira all’oggettività) ma una neolirica: non ha paura a scrivere “io”, affermando la sua individualità e l’irripetibilità del suo dettato senza scadere nel narcisismo, nel sentimentalismo o nell’autobiografismo (tre difetti in cui può incorrere la poesia tradizionale).

In questo caso non siamo di fronte al diarismo ma ci imbattiamo in una personalità veramente artistica. Non siamo di fronte alla pura registrazione delle effemeridi di una adolescente. La sua sensibilità non a caso si traduce in una spiccata espressività. Sa suscitare emozioni ed è ciò che quasi tutti chiedono ad un artista.

La Frati non risulta  eccessivamente introspettiva, non si perde nel flusso di coscienza o nei meandri della psicoanalisi. Sa essere sia intimista che descrittiva.

È poetessa non solo per i felici esiti dei suoi componimenti ma prima di tutto perché gli urge esprimere qualcosa da dentro e perché aspetta le rivelazioni dell’inconscio.

Si muove nel solco della tradizione novecentesca. Non crea cut up. La sua non è una poesia visiva, sonora o performativa. Allo stesso tempo non crede nella sacralità della parola e non è neoorfica.

Un altro aspetto che mi pare evidente è che non si pone nei confronti del mondo in modo sistematico ma in modo intuitivo. In  fondo oggi per capire la realtà è forse meglio avere una visione onnicomprensiva e totalizzante oppure il mondo è conoscibile solo parzialmente?

Probabilmente Lavinia Frati è per la seconda opzione. In fondo non potrebbe essere altrimenti. Filosofie ed ideologie sono state distrutte nel novecento. È rimasto solo il consumismo. Per il resto non voglio cercare di spiegare la fonte della sua creatività con l’ausilio della psicologia dell’arte o con alcune nozioni di nuove branche dello scibile come la neuroestetica. Secondo un antico detto della retorica: “se hai i contenuti, le parole verranno”.

Noi ci atteniamo a questo principio e non indagheremo a fondo sull’origine dei suoi versi. Dal suo io sgorgano immagini, sensazioni, percezioni, pensieri.

Sa cesellare con cura i suoi versi e sa soppesare le sue parole. Ogni espressione è ponderata. Ma ora veniamo al suo ultimo lavoro, che è un caso a sé stante. In questa nuova raccolta di poesie “Anidramnios” (in memoria di Irene Carbonara), edita da Controluna, si può rintracciare la catarsi che libera dall’angoscia, la poetessa cerca di superare il dolore e le contraddizioni dell’essere umani.

La Frati sa affrontare la tematica del dolore con sensibilità, tatto, dignità allo stesso tempo. Scrivere alla rinfusa le proprie paturnie è semplice. Manifestare con rigore e compostezza il dolore non lo è assolutamente. In questo caso specifico la morte potrebbe agire veramente contronatura e dare scacco matto a tutti. L’infanzia dovrebbe essere sinonimo di felicità o quantomeno di spensieratezza. Invece in questo caso il destino è inconcepibile ed incomprensibile.

La Frati esprime anche “l’infinita vanità del tutto”. Per questo motivo ritengo che queste sue poesie siano esemplari per il pathos ed abbiano una notevole portata sia emozionale che estetica. Sono più drammatiche di qualsiasi dramma teatrale. Qui non c’è il teatro dell’assurdo con le sue finzioni, le sue trovate metateatrali.

Ricordo che chi scrive ciò non è assolutamente un detrattore di Beckett. Ma qui c’è la vita vera o meglio una vera non vita: una scomparsa totalmente prematura. Secondo Herman Hesse la vita ha solo il senso che le diamo. Ma quale significato possiamo mai attribuire alla brevissima esistenza di Irene?

Questa raccolta mi ricorda Levinas quando scriveva che ogni figlio è figlio unico perché eletto. Ma potrei citare anche lo psicanalista Recalcati secondo cui ogni figlio è una poesia. Queste liriche quindi trattano del mistero della vita e della finitezza umana. Lo fanno con profondità e realismo.

Trattano di un destino crudele, non certo di rimpianti e sliding doors. Anzi trattano di due destini: il figlio di Lavinia, nonostante le difficoltà ce l’ha fatta, mentre Irene Carbonara no. Alcune di queste liriche sono davvero riuscite. Sono da includere in antologie scolastiche, anche se bisogna considerare la dimensione macrotestuale; bisogna considerare che si perderebbero i rimandi interni e la coesione dell’opera intera: qualcosa andrebbe perso perciò.

Si nota uno scavo della parola mai pienamente pacificato, ma che può essere condiviso da tutti. La sua poesia non è didascalica, estremamente eufonica o mercificabile: è molto di più, ovvero è poesia autentica ed ha un suo fondamento etico. È una poesia che ti fa chiedere dove sia l’origine del Male e allo stesso tempo è una poesia su cui grava la maledizione non espiata per l’uccisione dell’albatro.

È una poesia che tratta del dolore umano e cerca di trascenderlo. Anche questo genere cosiddetto di nicchia ci vuole in una editoria sempre più schiava del marketing e delle classifiche. Anche questo ci vuole in una società tecnocratica, postindustriale e di massa come quella odierna.

Questa raccolta di poesie è imprenscindibile. Va letta. Bisogna per forza farci i conti. La Frati sa emozionare senza essere melensa né provocare struggimento. Non è mai stucchevole e propensa al poetese. Evita sempre le romanticherie e lo sdilinquimento con cui la maggioranza crede di diventare poeta.

Per la sua poesia vale ciò che scrisse Saffo: “non c’è posto, da noi, sacerdoti di Poesia/ per la lagna: non è in armonia con noi”. Passione e ragione si controbilanciano nei componimenti della Frati. Inoltre per dirla alla Berardinelli forse la sua poesia è invendibile come la stragrande maggioranza della poesia contemporanea ma è leggibilissima. È chiara e mai sibillina. Non c’è mai un retropensiero o un sottotesto.

Ma sono tempi difficili per i poeti. È estremamente arduo far quadrare i conti per le case editrici che pubblicano poesie. La domanda è scarsa. L’offerta è notevole perché con l’aumento del tasso di scolarizzazione tantissimi provano a scrivere e ciò a mio avviso non va giudicato da snob.

La Frati riesce comunque a mettersi fuori dalla mischia. Meriterebbe a mio avviso riconoscimenti e premi. Meriterebbe più attenzione dai critici letterari, che dovrebbero accogliere entusiasticamente questa sua ultima prova. Dovrebbe essere valorizzata maggiormente e spero che venga fatto in modo almeno tardivo nel corso della sua vita: cercate di voler bene agli artisti quando sono vivi.

La gloria postuma spesso non serve nemmeno agli eredi. Questo è quello che avevo da dire e ciò che per me conta. Non altro. Spero di essere stato sintetico e non schematico.  Questo è ciò che mi ha ispirato la lettura di queste liriche. Tutto il resto passa in secondo piano in una epoca come quella attuale in cui le parole vengono bistrattate. Sono considerate inutili in questa cosiddetta civiltà dell’immagine, eppure mai come oggi vengono utilizzate a sproposito in sms, telefonate, quotidiani, telegiornali, talk show, mass media.

Quindi faccio una ultima considerazione di carattere generale. La poesia viene considerata inutile e pochi la leggono. Ciò nonostante leggere poesie può essere un mezzo per mantenere in esercizio la mente e allo stesso tempo un modo per risvegliarsi dal torpore.

Talvolta poeti e poetesse sanno inquadrare il reale in prospettive nuove. Forse se la poesia esiste da quando esiste l’uomo è perché questo ne ha sempre avuto bisogno. Forse è solo apparentemente inutile. Oppure forse come esseri umani abbiamo bisogno anche dell’inutile. La poesia forse serve a combattere un linguaggio ordinario che è sempre più spazzatura e fortemente stereotipato.

Forse serve a scardinare i luoghi comuni che intasano le teste di tutti ormai, anche dei più saggi. Forse.

Davide Morelli

Redazione Corriere di Puglia e Lucania

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