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A processo il cardinale Becciu e altri 9 per l’acquisto di un palazzo a Londra

L’ex sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede chiamato a rispondere di peculato, abuso d’ufficio, subornazione di teste

© Agf – Angelo Becciu

Peculato, abuso d’ufficio, subornazione di teste, ancora peculato: sono otto i capi di imputazione di cui Angelo Becciu, l’ex sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede privato delle prerogative cardinalizie da Papa Francesco quasi un anno fa, sarà chiamato a rispondere. Insieme a lui, coinvolti anche per altre tipologie di reato come la truffa e l’estorsione, nove altre persone. Si tratta di Cecilia Marogna, Fabrizio Tirabassi (un funzionario della Segreteria di Stato), gli uomini d’affari Gianluigi Torzi e Enrico Crasso, monsignor Mauro Carlino (che reggeva l’ufficio documentazione della segreteria). Soprattutto Raffaele Mincione, finanziere italo-svizzero che gli inquirenti non esitano ad indicare come il “dominus indiscusso delle politiche di investimento di una parte considerevole delle finanze della Segreteria di Stato”.

Poi ancora dovrà difendersi in aula Tommaso di Ruzza, già direttore dell’Aif, come anche Renè Brulhart, che dell’Autorità di supervisione finanziaria del Vaticano è arrivato ad essere presidente. Oltre a loro l’avvocato Nicola Squillace.

Sono i protagonisti dell’affaire della compravendita del palazzo a Sloane Avenue a Londra, in cui il Vaticano ha perso somme più che considerevoli. Le parti lese, scrivono gli inquirenti dell’ufficio del Promotore di Giustizia vaticano, sono invece due: la Segreteria di Stato e lo Ior. In altre parole: le istituzioni vaticane. A loro sarebbero stati sottratti, truffati ed estorti milioni di euro, provenienti dall’Obolo di San Pietro o comunque non dirottabili verso quella che si è rivelata essere tutto meno che un’opera di carità.

Nelle carte dell’inchiesta, visionate dall’AGI, si legge che Becciu, insieme a Crasso, Mincione e Tirabassi, facevano in modo che quei soldi finissero in “attività imprudentemente ed irragionevolmente speculative”, come “scalate a istituti bancari italiani in incipiente stato di crisi”, e “contrarie” agli scopi per cui i fedeli le avevano donate alla Chiesa. Il Palazzo di Sloane Avenue, poi, venne acquistato “a condizioni inique e gravemente dannose per la Segreteria di Stato” creando una plusvalenza che arrivò direttamente a Mincione.

Il rinvio a giudizio si basa su questa ricostruzione dei fatti: la Segreteria di Stato fu spinta a sottoscrivere, a partire dal 2013, quote del fondo Athena Capital Global Opportunities per oltre 200 milioni di dollari, e questo grazie la liquidità ottenuta con il credito aperto nei confronti del Vaticano da due banche svizzere, il Credit Suisse e la Banca della Svizzera Italiana.

In cambio però la Segreteria di Stato dovette mettere sul piatto un pegno “per valori patrimoniali pari a oltre 454 milioni di euro derivanti dalle donazioni dell’Obolo di San Pietro”. In altre parole e alla luce del cambio tra euro e dollaro, ben più del doppio. Eppure esistevano segnali ben precisi riguardanti la scarsa affidabilità dei personaggi che ruotavano attorno all’operazione.

Scrivono ancora gli inquirenti che certi passi venivano compiuti “senza alcuna preventiva verifica del contraente e senza alcuna previa attività istruttoria”. A dispetto di “articoli di stampa e di un’informativa della Gendarmeria vaticana dai quali emergevano elementi reputazionali negativi”. Risultato: Mincione ebbe “un indebito vantaggio per sè o per altri e comunque arrecando un danno ingiusto alla Segreteria di Stato”.

A questo punto “attraverso le disposizioni impartite da Becciu e Tirabassi” il Fondo Athena acquisì il 45 percento del quasi omonimo Fondo Athena Real Estate, che a sua volta era titolare “della partecipazione all’intero capitale delle società proprietarie del Palazzo di Londra”.

Giochi e incastri che vedono in momenti diversi l’allora sostituto alla Segreteria di Stato creare fondi immobiliari per acquisire società proprietarie di immobili a Londra, “vincolando così la stessa Segreteria di Stato al pagamento di commissioni in misura ingiustificata, e così impiegando risorse pubbliche per finalità ad essa estranee”.

Il porporato, insieme a Tirabassi, a Mincione e al consulente per la gestione del patrimonio della Segreteria di Stato Crasso in questo modo “si appropriavano o permettevano ad altri di appropriarsene, in palese conflitto di interessi, di parte delle liquidità versate nel Fondo Athena”.

Intanto, insieme a Cecilia Marogna si sottraevano per il “proprio profitto e vantaggio almeno 575.000 euro in fondi pubblici”. Analogamente lo stesso Becciu faceva arrivare alla cooperativa Spes, il cui responsabile era suo fratello Antonino, più versamenti di importo non inferiore a 225.000 euro provenienti dai fondi del suo ufficio.

Nella richiesta di rinvio a giudizio si legge che il Cardinale, che fu estromesso da ogni incarico da Papa Francesco in persona al termine di un incontro tempestoso lo scorso settembre, avrebbe inoltre tentato d’influire su monsignor Alberto Perlasca, che lo aveva chiamato in causa nel corso di una deposizione, attraverso il vescovo di Como Oscar Cantoni, dalla cui diocesi dipendeva il testimone scomodo.

Becciu avrebbe voluto ottenere la ritrattazione delle dichiarazioni. I reati più gravi vengono comunque contestati a Mincione (truffa, appropriazione indebita, autoriciclaggio), Tirabassi (truffa, estorsione, cinque volte corruzione, peculato), Crasso (riciclaggio, autoriciclaggio, truffa in cinque casi, estorsione).

I casi di corruzione contestati ad alcuni personaggi toccati dalla a di rinvio a giudizio riguardano la riscossione di fee o provvigioni ricevute da vari istituti bancari per la collocazione di quote di fondi o l’acquisizione di nuovi clienti, oppure da privati allo scopo di ostacolare il corretto funzionamento dell’amministrazione vaticana.

In questi frangenti venivano sollecitati o accettati anche regali in denaro o in oggetti di valore, o viaggi. Torzi, secondo l’accusa, “con artifizi e raggiri atti a ingannare o sorprendere la buona fede” delle istituzioni vaticane di cui era consulente finanziario le spingeva ad acquistare “con modalità fraudolente” azioni e quote di fondi, come il Centurion, guadagnandoci almeno cinque milioni. Di Ruzza e Brulhart sfruttando la loro posizione all’Aif, non eseguivano il blocco preventivo di somme per 15 milioni di euro che non avrebbero mai dovuto raggiungere paesi “con i quali è difficile la collaborazione finanziaria” e con essi i conti di Gianluigi Torzi.

Questi poi, insieme a Carlino, Tirabassi e Crasso avrebbe estorto dalle autorità vaticane diversi milioni di euro per permettere lo sblocco della vendita del Palazzo di Londra ed il rientro di una parte dei capitali investiti.

Da tutto ciò, commentano alla fine gli inquirenti, “emerge un intreccio quasi inestricabile tra persone fisiche e giuridiche, fondi di investimento, titoli finanziari” che sono protagonisti di “vicende ordinate appositamente e variamente interessate ad attingere alle risorse economiche della Santa Sede, spesso senza alcuna considerazione delle finalità e dell’indole della realtà ecclesiale”.

Insomma, un “marcio sistema predatorio e lucrativo” di “soggetti estranei alla natura ecclesiale” ma “talora reso possibile grazie a limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne”. Niente di più lontano “dai correnti standard internazionali seguiti dalle attività a contenuto economico-finanziario” della Santa Sede. Ed inoltre “questo sconfortante esito appare ulteriormente aggravato” dalla circostanza che tutto ciò sia avvenuto “drenando ingenti quantità di denaro e somme raccolte nell’Obolo di San Pietro, che nel corso dei secoli ha attinto ai più intimi impulsi della comunità ecclesiale”. Quelli della carità cristiana. AGI

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