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Non c’è pace per i migranti. La “sindrome della rassegnazione” è la nuova malattia che colpisce i loro figli

Non c’è pace tra gli ulivi ( dal film omonimo  girato  nel 1950 dal regista Giuseppe De Santis) espressione che si attaglia perfettamente al calvario che spesso i migranti/rifugiati devono percorrere dal momento in cui decidono di lasciare la loro terra natia con la famiglia per salvare le proprie vite dalle persecuzioni politiche o religiose messe in atto da dittatori truculenti, da capiclan o da capitribù; per procurarsi le cure mediche o i farmaci necessari per curarsi dalle malattie, spesso molto serie e gravi,  contratte in posti malsani, privi di acqua e soprattutto delle più elementari norme igieniche; per poter  trovare un lavoro che procuri loro  un reddito minimo con il quale provvedere alle esigenze corporali più  urgenti ed allontanare lo spettro della fame;  per poter respirare il profumo della libertà; per poter ripristinare in serenità la preghiera quotidiana con il loro dio.

Spesso il percorso che li porta nelle nuove terre è impervio, pieno di rischi; per un verso le avverse condizioni climatiche possono rendere impossibile o quasi il navigare costipati in barconi poco capienti rispetto a quanti si sono imbarcati.

Ancora più spesso, come la storia dei migranti ci insegna, non vengono soccorsi pur in presenza di condizioni climatiche proibitive con la comoda scusa che i segnali di soccorsi non sono captati; in molti casi queste carrette del mare vengono respinte o devono attendere in condizioni di estremo pericolo giorni e giorni per il disbrigo delle pratiche burocratiche necessarie per poter sbarcare.

E dulcis in fundo una  volta sbarcati devono dimostrare di essere in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa della nazione che li ospita  per l’ottenimento dei permessi di soggiorno (pratica necessaria per controllare che non ci siano infiltrati che  scappano per fuggire a condanne subiti nel loro paese) oltre al fatto che controlli rigidi e severi sono necessari soprattutto  in tempo di pandemia per evitare che tra i i migranti vi siano soggetti positivi al virus e quindi fonte di contagi.

Ma i problemi ed i guai non si esauriscono nella suindicata declaratoria lo dimostra il fatto che da qualche anno a questa parte è scoppiata tra i figli dei migranti quella che viene chiamata: la “sindrome della rassegnazione”. I bambini entrano in uno stato comatoso che dura anche mesi. Un sonno che il corpo attiva per rispondere alle sofferenze subite nel corso del lungo e defatigante transfer.

I primi casi sono stati registrati in Svezia ma si teme che la malattia ben presto possa diffondersi anche in altre nazioni ed in particolare in quelle interessate al fenomeno migratorio.

Gli svedesi la chiamano “Uppgivenhetssyndrom”, che tradotta in italiano si legge: ‘Sindrome della Rassegnazione’ ed è qualcosa in più dell’apatia che può caratterizzare lo stato d’animo di una persona, arrivando addirittura a sfociare in uno stato comatoso.

Il Consiglio Nazionale di Sanità della Svezia ha dichiarato che tra il 2015 e il 2016 ci sono stati 169 episodi per arrivare ai 380 casi registrati al 31 dicembre 2020. Una storia che fa rabbrividire, ma che purtroppo è vera anche se per il momento circoscritta a una determinata area geografica e a determinate etnie. I piccoli colpiti da Sindrome della Rassegnazione sono quelli che non reggono più il peso dell’incertezza, figli di rifugiati che vedono la loro famiglia alle prese con iter difficili e senza poter programmare il proprio futuro.

Crollano sotto il peso di una fatica psicologica eccessiva e di una vita che sembra sempre in bilico; seppure piccoli per comprenderlo appieno questi bimbi ne soffrono comunque. Si tratta per lo più di famiglie siriane richiedenti asilo in Svezia a cui lo Stato ha revocato o sta per revocare il permesso di soggiorno.

Un limbo difficile da affrontare per gli adulti, evidentemente ancora di più per i bambini che sono sottoposti  alle difficoltà di un viaggio a volte impervio lasciandosi tutto alle proprie spalle. Il direttore dell’unità psichiatrica dell’ospedale universitario di Stoccolma ne ha descritto  i sintomi.  “I bambini diventato totalmente passivi, immobili, fiacchi, schivi, taciturni, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e privi di reazioni dinanzi a stimoli fisici o al dolore. Questi piccoli pazienti vengono chiamati ‘bambini apatici”. Inizialmente in Svezia qualcuno ha pensato che questa potesse essere una messinscena, ma la patologia è stata confermata da tutti i medici che di volta in volta sono stati consultati. E allora è partita una sorta di crociata per consentire a queste famiglie di ottenere il rinnovo del permesso. Un appello che ha lanciato anche il neurologo svedese a capo della ricerca su questa strana sindrome che opera all’interno dell’ospedale Pediatrico Astrid Lindgren di Stoccolma.

Più volte ha sottolineato la necessità del rinnovo del permesso per le famiglie di questi bambini per ottenerne la guarigione, anche se non si tratta di una svolta immediata. E’ l’unica malattia al mondo che può essere guarita grazie ad un iter burocratico positivo. A volte trascorrono anche mesi dalla notizia della risoluzione positiva della vicenda burocratica alla sparizione dei sintomi.

Anche il popolo svedese si è commosso di fronte ad una tale situazione ed ha avviato una petizione che in pochi giorni ha superato le 60mila firme. Finora un risultato c’è stato: la revoca della deportazione di 30.000 famiglie con permesso già scaduto. Questa triste vicenda ricorda a tutti che al centro della burocrazia e delle beghe politiche ci sono anche i bambini ed i bambini sono essere umani e come tali vanno protetti anche nel rispetto delle numerose disposizioni legislative e risoluzione internazionali.

E’ in definitiva un atto di civiltà e solidarietà che non ci costa nulla ma che ci fa sentire più buoni e solidali e cittadini del mondo.

Marcario Giacomo

Redazione Corriere di Puglia e Lucania

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