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Comunicazione ed ascolto per un giornalismo empatico

Diciamoci la verità: nell’individuare le caratteristiche necessarie per svolgere al meglio  la mission del giornalista si è da sempre sostenuto che  il  giornalismo deve essere  etico, corretto, leale, rispettoso dei fatti così come accaduti evitando manipolazioni o travisamenti o interpretazioni ultronee tali da trarre in inganno il lettore. Su questi temi si è sviluppato negli ultimi anni un dialogo serrato, un confronto talvolta anche duro tra i giornalisti, gli addetti ai lavori, i cittadini , il mondo politico ed imprenditoriale.

Il giornalismo in genere compreso quello etico si muove su clichè e stereotipi che appaiono ormai superati; spesso, troppo spesso la comunicazione non risulta essere efficace e quindi non raggiunge i suoi obiettivi; a ciò si aggiunga il  calo  esponenziale dei lettori, il fatto che le persone leggono sempre di meno e se leggono spesso lo fanno con superficialità  soffermandosi sui titoli o sui titoloni senza fare i necessari approfondimenti su quanto viene scritto e posto alla loro attenzione. D’altra parte è molto più semplice, direi di una facilità estrema andare sui social  network per  connettersi in pochi secondi e in tempi reali con le redazioni dei giornali cartacei (che oggi ritroviamo anche riportati sul web)  e dei giornali on line di tutto il mondo.

Ok sembra che così vada tutto bene, una lettura veloce e via, ma la superficialità spesso non paga soprattutto nella lettura; il rischio di fraintendimenti e di interpretazioni del tutto estemporanee sono lì sempre in agguato.  Un dato però va posto nella dovuta evidenza: per creare interesse e captare l’attenzione dei lettori il giornalista con i suoi articoli con i quali racconta fatti, accadimenti, interviste, storie, confessioni e denunce deve essere intrigante e non eccessivamente ecclettico, deve  stimolare all’approfondimento, spingere il lettore ad entrare nella notizia, nel fatto che intende  descrivere per uscire dal clichè cronachistico e dare a quell’articolo un’anima, una identificazione, per cercare di capire spesso la dietrologia, il movens, la ratio ed il contesto politico, sociale e religioso in cui un determinato accadimento si è sviluppato.

Oggi purtroppo così non è ; per fare del giornalismo che abbia più appeal, sia più coerente con i tempi in cui sembra prevalere aimè l’abitudine del mordi e fuggi occorre  cambiare strategia ed impostazione. Ne ha più senso pubblicare una notizia in modo asettico ed impersonale ; i nostri interlocutori sono esseri umani   hanno passioni, sentimenti occorre stabilire con loro un approccio diverso, entrare dentro la notizia, scavare fino in fondo per venire a capo della verità, dei fatti e degli antefatti in cui quel determinato accadimento si è verificato o si è potuto verificare. Andare dentro la notizia, in profondità richiede un atteggiamento empatico, il nuovo giornalista ed il nuovo giornalismo oltre che essere etico deve essere necessariamente  empatico, Sul tema non siamo per fortuna all’anno zero: Un segnale ci giunge da molte direzioni; giorni or sono il giornalista Beppe Severgnini

parlando della difficoltà di comunicare con efficacia per raggiungere i propri destinatari, uno sforzo che oggi è di primaria importanza nel mondo della comunicazione, ha sottolineato che: “l’empatia è un dovere e uno strumento professionale: uno dei pochi efficaci, in un mercato sempre più difficile”. Ed allora la domanda sorge spontanea: perché alcuni di noi riescono a comunicare e altri no? Perché molti, pur avendo idee originali, non riescono a trasferirle?. Perché talvolta il messaggio passa, e altre volte s’insabbia nell’indifferenza?. Il reporter/giornalista può mettersi in una disposizione costruttiva e fiduciosa nei confronti dei propri interlocutori?

Gli ultimi dolorosi avvenimenti legati in particolare alla pandemia,  alle migrazioni e alle guerre ci dicono che non solo ciò è lecito, ma auspicabile Le recenti vicende che hanno avuto come protagonisti centinaia di migranti morti per la mancanza di soccorso e nella pressochè totale indifferenza dell’Europa, dell’ONU e di a tante altre sigle internazionali hanno svelato un lato per tanti versi misconosciuto dei giornalisti, categoria sottoposta a stress notevoli di questi tempi, tra novità tecnologiche e pressioni politiche provenienti da tutte le latitudini, i condizionamenti ed i paletti imposti dall’editore o dallo staff editoriale. Nelle summenzionate situazioni  il nel descrivere fatti e accadimenti è emerso  “a sorpresa” il lato “empatico” di chi per la natura della propria professione va alla ricerca della “verità” dei fatti”, o perlomeno della la loro veridicità, in ogni caso mostrando un atteggiamento di obiettività, onestà e rispetto. Ma bisogna farsi la domanda: è compatibile l’empatia, cioè «la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva», con il giornalismo?

Credo proprio di sì per diverse ragioni, seppur a certe condizioni. In primo luogo il giornalismo di inizio millennio gioca molto, forse troppo, con le emozioni, ne abusa e a volte non ha altra freccia al proprio arco che le emozioni, senza rispetto per il reale ed oggettivo svolgimento dei fatti. Ciò è dovuto alla circostanza  che l’immagine è sempre più centrale nel mestiere del giornalista, e l’immagine talvolta  imbroglia, il dettaglio di un’immagine può dare l’idea di verità ma anche comprensione erronea dell’evento.

Una seconda condizione è che l’obiettività non venga mai meno, cioè la ricerca costante di fonti credibili e al limite sicure, il rigore dei controlli incrociati nelle redazioni, un’integerrima attenzione alla deontologia. Bisogna sempre tener presente che un testimone che vive una data situazione difficile e rischiosa, spesso non può avere quell’obiettività di giudizio che il giornalista deve invece avere.

Terza condizione, perché l’empatia venga utilizzata dal giornalista occorre dare voce non solo a una parte, ma alle diverse voci che sono in gioco in un dato contesto: penso alla guerra di Siria, come di qualsiasi altra guerra, in cui per capire la reale situazione non si può sposare al 100% solo l’opinione di una parte (dei clan al potere o del  dittatore di turno) e le notizie che questi divulgano, ma bisogna cercare di capire con sguardo “ecumenico”. Quindi le ragioni per auspicare che si giunga rapidamente ad un giornalismo “empatico sono molteplici, La prima sta nel fatto che il  giornalista per quanto tuttologo  non può avere conoscenza esatta della complessità di tutti i fenomeni e dei fatti che accadono e che sono chiamati a descrivere e raccontare. Vi è sempre più  bisogno, comunque,  degli esperti, così come dei testimoni, anzi soprattutto di questi ultimi.

Con essi – e in misura minore anche con gli esperti – l’empatia è non solo auspicabile ma necessaria per riuscire a raccontare “coi loro occhi” quanto succede. La seconda ragione credo sia una motivazione filosofica: l’ermeneutica ci ha infatti insegnato che ogni evento non può mai essere raccontato nella sua reale realtà, ma solo in quella che io credo essere la realtà. Per questo il giornalista, per evitare di cadere nel tranello dei propri preconcetti e della propria lettura limitata degli eventi, ha bisogno dell’altro, di chi conosce meglio le situazioni o addirittura ne è stato il protagonista.

Terza ragione, più professionale: con un atteggiamento empatico, piuttosto che uno aggressivo, si riesce ad ottenere dai propri interlocutori una visione delle cose più corrispondente alla realtà. In qualche modo, l’interlocutore si esprime al meglio se di fronte trova un giornalista che ascolta con atteggiamento empatico. La verità è difficile da gestire, da sempre. Nessuna persona a questo mondo la possiede appieno. Gesù disse: «Io sono la via, la verità, la vita». Chi di noi umani può dire altrettanto?

Siamo seri: i giornalisti possono solo cercare di essere obiettivi, onesti, documentati, capaci di controllare le fonti. E l’empatia può aiutarci in questo compito.

Marcario Giacomo

Comitato di Redazione del Corrierepl.it

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