Principale Arte, Cultura & Società Musica, Eventi & Spettacoli Su Netflix c’è un bellissimo film taiwanese e nessuno lo sa

Su Netflix c’è un bellissimo film taiwanese e nessuno lo sa

A Sun di Chung Mong-hong è uscito in sordina nel 2019, è sulla piattaforma di streaming da un anno, e ora è stato incluso nella shortlist degli Oscar 2021.

di Corinne Corci

Da A Sun, su Netflix

Dopo essere stato proiettato al Toronto Film festival del 2019, A Sun, il film del regista taiwanese Chung Mong-hong, lo scorso anno è arrivato su Netflix. Eppure, nonostante sia lì da quasi 12 mesi, è rimasto uno sconosciuto film taiwanese fino a qualche settimana fa, quando il titolo è entrato nella shortlist dei film candidati all’Oscar per il Miglior film straniero. Il 23 novembre del 2019 Peter Debruge, su Variety, l’aveva persino definito «un’opera sbalorditiva a livello mondiale». E noi niente. Perché A Sun è sfuggito non solo agli occhi del pubblico (ha 14 recensioni su Rotten Tomatoes), ma anche a quelli di molta critica, e una volta inghiottito dalla tirannia dell’algoritmo di Netflix si è perso tra migliaia di altri titoli, per quella logica per cui i film non sono mai stati così tanto accessibili e allo stesso tempo – vista la loro strabordante quantità e disponibilità – non è mai stato tanto difficile trovarli.

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Intervistato da Variety recentemente, il regista ha spiegato che non ha ancora capito perché il suo film sia passato in sordina (ha trionfato anche ai Golden Horse Awards, i più importanti premi per il cinema cinese): «Certo non è un film gioioso, né offre speranze o un certo tipo di ottimismo, ma penso possa avere valore universale. Spero che chi lo guarda possa riflettere sulle proprie frustrazioni». Eppure l’abbiamo snobbato.

È un po’ un problema occidentale, ci diciamo propensi ad accogliere titoli che provengono da altre parti del mondo ma spesso ci riveliamo poco attenti. Taiwan è un Paese che ha dato tantissimo al cinema contemporaneo, si pensi a tutti i premi vinti da registi come Hou Hsiao-hsien, Leone d’oro con City of Sadness, come Edward Yang, Palma d’oro a Cannes nel 2000 con Yi Yi, o come Tsai Ming Liang premiato a Venezia con il Leone d’oro per Vive l’amour! e a Berlino con l’Orso d’argento per Il fiume. E poi c’è Netflix, che tra i pregi dovrebbe avere la possibilità di aprire una finestra sulla distribuzione mondiale che la comune distribuzione cinematografica (almeno, quando c’era) non apre, e invece a causa del modo in cui è strutturata e dell’incapacità di aggregare i suoi titoli con efficacia, non fa altro che accrescere il problema. Così che film come Dear ExLittle Big Women (sempre da Taiwan, sempre su Netflix), o A Sun rischiamo di perderceli nonostante la loro qualità.

Abbiamo un problema con l’alcol per colpa della pandemia?
Dal primo lockdown il nostro rapporto con il bere si è intensificato ma anche complicato.
«Sono depressa», mi ha scritto un’amica mentalmente sana qualche giorno fa. È una formula ormai sdoganata: recenti studi (condotti da me tra i miei conoscenti, amici e parenti) dimostrano che circa l’80 per cento delle persone che la utilizza non soffre né ha mai sofferto di depressione (che non è un’intensa sensazione di tristezza, è quella che se vai dallo psichiatra ti dice che ce l’hai). Chissà, forse prima o poi inizieremo a prestare attenzione anche all’abuso di termini che indicano questo genere di malattie: «schizofrenica!», mi diceva spesso un ex (non lo sono: la sua diagnosi era errata). «Sei anoressica?», chiedo ridendo a una collega che ancora conserva parte dei cioccolatini che le abbiamo regalato un mese fa (no, non facevano schifo). Dati precisi non se ne trovano, ma grazie ai miei approfonditi studi posso affermare con certezza che uno dei termini più utilizzati, ultimamente, è “alcolizzato”. «Durante il primo lockdown ero alcolizzato», dicono in tanti.

Dopo l’esplosione della pandemia, nelle chiacchiere dal vivo, al telefono o su WhatsApp, ma anche su Instagram e su TikTok si scherzava spesso sull’alcol come unica soluzione per sopportare il momento assurdo che stavamo passando. Cazzeggiando sui social, prima o poi ci si imbatteva in qualcosa di comico sul bere: un video, una battuta, un meme, la scena di un film o di una serie ripescata per l’occasione (poi, qualche mese dopo, La regina degli scacchi ha provato a sensibilizzarci). A un certo punto #babysaysno – dire no all’acqua, un po’ la variazione sul tema di quelle magliette sfigate con scritto «Don’t waste water drink champagne» – è stato un hashtag virale su TikTok. Per i più antichi c’era l’immagine di una fila di bottiglie con la scritta «Aprile. Non è un mese, è un consiglio» che girava su Facebook.

C’è stato un tempo in cui vedere un collega bere diversi bicchieri di vino in ufficio, durante l’orario di lavoro, sarebbe stato un po’ strano. Adesso è diverso. «Sono al terzo spritz», mi scrive un’amica alle 16: come me, sta in smart working da un anno. «Ma non sei un po’ brilla? Come fai a lavorare», le chiedo. «Anche i miei colleghi stanno bevendo!», si giustifica lei. Un goffo tentativo di team building a distanza. Non c’è niente di male, mi dico: l’importante è non perdere il controllo, portare a termine i propri compiti. Vedendo il suo team di creativi, nessuno penserebbe «sono alcolizzati, bisogna aiutarli». Perché a quel punto dovremmo pensarlo quasi di tutti. Ma cosa dobbiamo pensare, allora? Quando così tante persone bevono praticamente tutti i giorni, come si fa a capire chi durante quest’anno di pandemia ha sviluppato dei problemi con l’alcol e chi no?

Nel primo lockdown, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, i consumi di alcol sono aumentati dal 180 al 250 per cento. Adesso che hanno riaperto i locali, le cose si mescolano ancora di più, o meglio: abbiamo tutti una bella scusa per continuare a bere. Prima ci affidavamo ai bicchieri per alleggerire la solitudine o la noia del restare a casa, acquistavamo bottiglie pregiate su internet per sostenere le enoteche e mandare avanti l’economia, ci facevamo recapitare una bella scorta di bottiglie dignitose per dare una botta di vita alle nostre cene sempre uguali, ordinavamo bottiglie scarse che Glovo ci consegnava nel cuore della notte per risolvere un inaspettato momento d’inquietudine o un’improvvisa voglia di festa. Adesso ci abbandoneremo al bere per festeggiare la ritrovata libertà e soprattutto mostrare solidarietà ai baristi e ai ristoratori.

Una scena da Another round, di Thomas Vinterberg

«Se continui a funzionare, a svegliarti la mattina e stare bene, vuol dire che hai trovato un tuo equilibrio», dice un mio amico che beve una bottiglia di vino al giorno da anni, si droga spesso e volentieri e altrettanto spesso e volentieri va a correre o si sveglia all’alba a fare yoga. La discriminante, quindi, sembrerebbe l’efficacia: se mi sento una merda non va bene, se continuo a funzionare e a sentirmi ok, tutto bene. Bere potrebbe addirittura aiutarci ad essere più creativi, a scioglierci un po’, farci venire nuove idee. E se il segreto fosse bere in continuazione? Sembra un po’ la teoria di Another round, il film di Thomas Vinterberg scelto per rappresentare la Danimarca agli Oscar 2021, dove ha vinto il premio come Miglior film in lingua straniera ed è stato candidato per il miglior regista: insoddisfatti della loro vita, quattro insegnanti di scuola decidono di testare su di loro una teoria secondo cui un costante stato d’ebbrezza porterebbe enormi benefici alla quotidianità. E a proposito di uomini ubriachi: una collega mi dice che durante il secondo lockdown ha bevuto molto meno del primo, ed è contenta soprattutto di tutti i soldi risparmiati così facendo (perché diciamolo, bere bene – ma anche male, dopotutto, per i danni che provoca – è un vizio costoso), anche se il rewatch di Mad Men, intrapreso ultimamente (un’inconscia operazione di autoboicottaggio?), sta risvegliando in lei la voglia di comprare un carrellino bar e sentirsi carismatica e disperata sorseggiando un Old fashioned alle 10 del mattino.

Don Draper al bancone del bar.

E poi ci sono gli sfortunati che ogni volta che prendono in mano il primo bicchiere scoprono di possedere una sete d’alcol atavica, misteriosa e senza fine. Il giorno dopo si svegliano e si maledicono: bocca asciutta, mal di testa, nessuna memoria di ciò che è successo la sera prima se non nelle agghiaccianti tracce lasciate sul cellulare (o peggio, sul proprio corpo, o nella memoria delle persone). Strani lividi, vocali sguaiati, messaggi sbagliati, affermazioni o gesti di cui il giorno dopo partner, amici ed amanti chiedono conto, e loro: «Ho fatto/detto questo? Impossibile». Anche i vicini, a volte, vorrebbero chiedergli perché alle 4 del mattino urlavano “Ti sento” dei Matia Bazar, ma per non metterli in imbarazzo si limitano a un discreto colpo sul muro. Il bello di restare chiusi in casa è che non ci sono gravi rischi per l’incolumità.

Esiste un comodo questionario che da decenni aiuta le persone a capire se devono preoccuparsi del loro rapporto con il bere. Una volta riconosciuto il problema, l’aiuto si può trovare ovunque. Perfino Instagram, che come gli altri social può funzionare come trigger, cerca di rivoltare la frittata e tendere una mano, proprio come con la body positivity: nel 2018, ad esempio (ma durante la pandemia i follower sono aumentati vertiginosamente), è nato Sober Girl Society, un account pensato per le donne che desiderano smettere di bere, creato da un’ex alcolista coi capelli rosa chiaro.

Oltre agli alcolizzati latenti e alle donne, a preoccupare sono anche i più giovani: studenti in Dad che hanno preso l’abitudine di bere troppo spesso, approfittando della possibilità di restare a casa il giorno dopo e smaltire l’hangover pascolando comodamente in tuta nella propria camera. Messi da parte questi casi, cosa dire degli altri? Purtroppo per gli alcolisti, “gli altri” possono continuare tranquillamente a bere, ricordandogli cosa significa vivere senza questo problema o traendoli in inganno: «Ma dai solo un bicchiere, solo stasera, per festeggiare l’apertura dei bar!». Alcuni sono così sani che il loro corpo si è auto-regolato sulle due fasi della pandemia. È successo a tante persone, a quanto pare: «Nel primo lockdown bere un paio di birre o qualche bicchiere di vino a cena, magari aumentare un po’ nel weekend, era diventata un’esigenza, un’abitudine anti-stress», dice una collega con un ottimo controllo della bottiglia. «Nel secondo lockdown, invece, quella voglia di bere è completamente passata, forse anche per pigrizia e rassegnazione».

Ognuno di noi conosce qualcuno che durante quest’anno ha cominciato a bere troppo o molto più di prima. Diverse persone che conosco e che non erano mai state in terapia nella loro vita, hanno iniziato quest’anno, ovviamente a spese loro. Ma quel che vale per disturbi mentali vale anche per l’alcool: la consapevolezza nei confronti di questi problemi sembra essere un po’ aumentata, ma la risposta è ancora molto confusa, forse perché la gravità del problema ancora non è chiara. Il New York Times ha dedicato all’argomento una quantità di articoli, il più recente per evidenziare che ancora non conosciamo i danni a lungo termine di questo abuso di alcool collettivo e “normalizzato”. “How Bad Is Our Pandemic Drinking Problem?”, si chiede Kim Tingley. Secondo quanto riportato, studi dimostrano che l’anno scorso ha cambiato i modelli di consumo di alcol, soprattutto tra le donne. Chi ha risposto al questionario ha affermato di aver cominciato a bere di più per “gestire lo stress”: «Questa tendenza è particolarmente allarmante», spiega Tingley, «perché ricerche precedenti suggeriscono che le persone che bevono per far fronte ai problemi – invece di farlo per piacere – hanno un rischio maggiore di sviluppare un disturbo da uso di alcol, che è l’incapacità di smettere o controllare il bere anche quando provoca danni».

Come si legge nell’articolo, anche gli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’epidemia di Sars del 2003 e l’uragano Katrina sono stati seguiti da un aumento dell’abuso di alcol tra coloro che li hanno vissuti o in qualche modo ne hanno subito le conseguenze. Nessuno però ha mai studiato l’impatto di una catastrofe che è durata così a lungo ed è stata pervasiva come l’attuale pandemia sul comportamento del bere. Oltre ad aumentare l’isolamento sociale, il Covid ha avviato cambiamenti diffusi nella disponibilità di alcol attraverso l’asporto e la consegna. «Quindi non è solo la salute della persona che beve che ci interessa», dice una scienziata interrogata dal giornalista, «ma è anche l’impatto sociale sulla famiglia e sulla società in generale». Il problema è che, pur essendo una sostanza pericolosissima, l’alcool continua a circolare nelle nostre vite quotidiane e ad essere parte integrante della socialità. Bere è normale? Bere è mortale? Dipende da cosa, da quanto, ma forse soprattutto da chi. Due mesi fa, sempre sul New York Times, si parlava della proposta di mettere sulle bottiglie di alcol avvisi anticancro come quelli che ormai siamo abituati a vedere sui pacchetti di sigarette. Nel caso dell’alcool, sarebbe giusto aggiungere anche la scritta “conosci te stesso”.

La strana storia di come Paddington 2 è diventato il film più bello del mondo
Considerato dal Guardian tra i 100 film migliori del 21esimo secolo, ora su Rotten Tomatoes ha superato anche Quarto potere, sceso al secondo posto.
Per inveire contro il più famoso sito-aggregatore di recensioni cinematografiche basta pochissimo. Basta, per esempio, cercare a quanto ammonta il “Tomatometer” di Rotter Tomatoes per Zabriskie Point (appena al 64 per cento) o per Blade Runner che per fortuna arriva almeno al 90 per cento. Secondo le recensioni e le stime del sito, ora, un nuovo film avrebbe superato tutti gli altri, in particolare Quarto potere di Orson Welles, considerato fino a poco fa da Rotten Tomatoes e non solo il migliore film mai realizzato prima. Ma non è più così. Il titolo adesso appartiene a un sequel del 2017, dedicato alle avventure dell’orsetto con l’impermeabile giallo più noto di Inghilterra e creato da Michael Bond: Paddington 2.

Diretto da Paul King, il film, realizzato proprio in memoria dello scrittore inglese scomparso nello stesso anno, ha attraversato un processo interessante e misterioso, che l’ha trasformato da ottimo prodotto per bambini quale era in una delle migliori opere di sempre (anche il Guardian l’ha inserito negli elenchi delle 100 pellicole più belle realizzate dopo il 2000, e nel 2018 aveva sottolineato il fatto che su Rotten Tomatoes avesse totalizzato il maggior numero di recensioni positive). È difficile capire come sia potuto accadere, soprattutto ora che ha persino battuto il film dei film per eccellenza, anche se non abbiamo una data precisa di quando sia successo. Come ha fatto notare un utente Twitter, nel caso specifico Rotten Tomatoes avrebbe ricondiviso una recensione negativa del film di Welles risalente a 80 anni fa, scritta da Mae Tinée per il Chicago Tribune (potete leggerla qui), così che nel giro di poco tempo il punteggio del Tomatometer sia sceso al 99 per cento, rendendo Paddington 2, che stava in seconda posizione, il più grande film di sempre.

Sarà che nel sequel c’è anche Hugh Grant (lui stesso aveva detto che Paddington 2 fosse uno dei film più emozionanti e ben fatti mai visti), o che il fatto che a un certo punto l’orsetto finisca in prigione ci possa commuovere facilmente, ma di articoli circa la straordinarietà del film ne esistono tantissimi, talmente accorati da convincerci che la seconda avventura dell’orso pupazzino avrebbe potuto meritare almeno cinque nomination e vittorie agli Oscar, come ha scritto IndieWire a novembre del 2018.

Tra i motivi, la sceneggiatura. Paddington, sempre ospite della famiglia Brown, vuole spedire all’amata lontana zia orsa Lucy un bellissimo libro pop-up su Londra, ma quest’ultimo fa gola anche al vanesio attore gigione in disarmo Phoenix Buchanan, Hugh Grant, che riesce a far finire l’orso persino in prigione per accaparrarsi il volume. Una trama semplice, eppure di marmo, come spiega Medium, «Paddington 2 offre pura magia cinematografica, perché è affascinante, commovente, e divertente». Le ha tutte. «La trama non spreca una singola riga di dialogo, nobilita ogni singolo personaggio, non dà niente per scontato. È raro vedere un film con una sceneggiatura così perfetta, con un climax crescente incredibile in grado di recuperare tutti i momenti e le storie aperte all’inizio per richiuderle come in un cerchio verso la fine».

In secondo luogo, il significato politico che il film ha assunto nel corso degli anni. Se nel primo capitolo Paddington era un vero e proprio rifugiato, dovendosela vedere con la diffidenza della comunità nei suoi confronti, nel secondo è diventato il beniamino di Londra, un simbolo popolare, divenuto anche una metafora politica per far comprendere l’inutilità della Brexit in un Paese che da sempre ha una forte connotazione liberale.

Poi, il citazionismo nascosto, considerando che la prima sequenza con l’inseguimento fa un cenno ad Harold Lloyd, le scene nel carcere vittoriano omaggiano Charlie Chaplin, mentre il gran finale con la locomotiva è un meraviglioso tributo a Buster Keaton. Seguono, per IndieWire, la bravura degli attori, la bellezza dei costumi, il fatto che Paddington sia una meraviglia dell’animazione digitale, con immagini in CGI strabilianti, poi certo, la solita retorica del parlare ai piccoli ma soprattutto anche ai grandi, con il valore della gentilezza, la forza delle idee, l’unione, la condivisione.

Adesso ha superato anche Quarto potere, il film di cui siamo tornati a parlare quest’anno grazie a Mank di David Fincher, sulla figura dello sceneggiatore reale dell’opera di Orson Welles e che agli Oscar 2021 ha portato a casa appena due statuette (per fotografia e scenografia). E per quanto Paddington 2 sia bello, la decisione che sia effettivamente il più bello è solo di Rotten Tomatoes, e potremmo ricordare che Quarto potere venne già battuto all’epoca dell’uscita, durante gli Oscar del 1942. Al suo posto venne premiato Com’era verde la mia valle, di cui ad oggi in pochi si ricordano.

Dovremmo tutti ascoltare Yuh-Jung Youn
Vincitrice dell’Oscar per la Migliore attrice non protagonista per Minari (e fan di Brad Pitt), l’attrice sudcoreana è un personaggio da amare.
Yuh-Jung Youn«Continuano a chiedermi com’è stato incontrare Brad Pitt», dice l’attrice alla conferenza stampa coreana degli Oscar, poi alza gli occhi al cielo e si mette a sorseggiare il calice di vino bianco che ha in mano. Forse non c’è un’immagine che possa rappresentare in maniera più immediata Yuh-Jung Youn, che domenica scorsa ha vinto la statuetta come Migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione in Minari (la prima attrice coreana a vincere un Oscar nella categoria). Di solito non sopporto questa corsa a cercare a tutti i costi somiglianze tra gli attori e i loro personaggi, ma con Yuh-Jung Youn non puoi fare altro. Dal momento in cui è salita sul palco della Union Station a Los Angeles e ha iniziato a parlare, era impossibile non vederci Soon-ja, la nonna coreana di Minari che spiega a un bambino perché il nipote non può andare a dormire a casa sua, «ha il ding-dong (pene, ndr) rotto», o che in chiesa si riprende la banconota da cento che la figlia ha versato nella raccolta delle offerte.

Sono convinta che Yuh-Jung Youn sia una sorta di saggia venuta da un altro tempo e che ogni volta che apre bocca sia sempre capace di pronunciare una verità assoluta edulcorata con un sarcasmo tutto suo. «Non spendere soldi in alcol, droghe o scommesse. Spendere soldi non è intelligente. Principalmente io offro la cena ai miei amici cari, ordiniamo insieme il vino, oppure compro vestiti per me», dice in un’intervista rilasciata dal sito dell’A24, la casa di  produzione indipendente che ha distribuito Minari. Il mio aforisma preferito rimane, però, quello sull’amore per il suo letto: «Restare a letto per un giorno è la mia gioia e il mio hobby. Mi piace guardare la televisione o semplicemente sonnecchiare, senza pensare a niente: è tutto quello che voglio fare», poi aggiunge: «Mi dispiace dirlo, ma mi sto proprio godendo la quarantena perché posso riposarmi. Non devo vedere nessuno. Posso stare a casa ventiquattr’ore e stare a letto, nel mio posto preferito». Nessuna pace nel mondo, ma starsene sdraiati nel letto indisturbati. Non è forse il desiderio più condivisibile di tutti? Sì, ma in quanti hanno avuto il coraggio di Yuh-Jung Youn a dirlo così, candidamente, in un’intervista iper istituzionale?

Yuh-Jung Youn alla cerimonia degli Oscar, courtesy of Getty

È proprio questa franchezza, che non ti aspetti da una minutissima donna di 73 anni, che nelle foto sorride sempre ammiccante, a caratterizzare l’attrice nello stesso modo del suo personaggio in Minari – e che ha spiazzato tutti alla cerimonia degli Oscar. Appena è salita sul palco ha fatto quello che avremmo voluto fare un po’ tutti: la fangirl di Brad Pitt. L’ha guardato commossa negli occhi e gli ha detto «Signor Brad Pitt, finalmente riesco a conoscerla, dov’era durante le riprese?» (perché Minari è stato prodotto dalla casa di produzione di Pitt, la Plan B Entertainment). Poi si è fatta seria, ha guardato il pubblico, e con la statuetta in mano ha corretto l’attore che ha sbagliato a pronunciare il suo nome – in un certo senso, rivendicandolo. Ha fatto notare come in Occidente si tenda a storpiarlo, facilitandone la pronuncia, quando lei in realtà si chiama in un altro modo. «Ma questa sera vi perdono tutti», ha poi detto col sorriso che aspetti, o auguri, di vedere. In poche e semplici parole pronunciate col sorriso all’attore più conosciuto di Hollywood, Yuh-Jung Youn ha denunciato questo tipo di micro-aggressioni a sfondo razziale.

Non solo, in conferenza stampa ha poi fatto un discorso sul genere e sulla sessualità, appoggiando, velatamente, la causa Lgbtqi+: temi sui quali è raro esporsi in Corea: «Anche un arcobaleno ha sette colori. Il colore non importa, non voglio che ci dividiamo in uomo o donna, nero o bianco, giallo o marrone, gay o etero» e aggiunge, «abbiamo tutti lo stesso cuore caldo». Quello che dice, il suo candore e il modo di fare la rendono subito divertente, e lo sa, ci scherza, senza smettere di essere fortemente seria nemmeno per un secondo.

Soon-ja, il suo personaggio in Minari, è la nonna che si trasferisce, dalla Corea, nelle campagne dell’Arkansas per dare una mano alla figlia e al suocero a crescere i nipoti, mentre loro lavorano duramente per mettere da parte qualche soldo, tra lavori nello smistamento di pulcini e orti casalinghi di verdure coreane. Non sa una parola di inglese e non ha un’idea della cultura americana, alla quale i bambini cercano da sempre di aderire. È la nonna un po’ strana, alla quale il nipotino dice di non essere una vera nonna perché non sa cucinare i biscotti ma bestemmia ogni sera davanti alla televisione mentre scopre il wrestling in t-shirt, boxer, e Mountain Dew in mano.

Come riporta l’Atlantic, l’intenzione del regista Lee Isaac Chung  era di rappresentare la storia della sua famiglia senza effettivamente imitare le singole esperienze dei suoi familiari, per rendere il racconto sì, intimo, ma non strettamente personale, e cioè condivisibile anche da tutti, anche da chi non appartenesse alla minoranza asiatica in America. Intervistata dalla National Public Radio, l’attrice Yuh-Jung Youn ha detto che nel personaggio di Soon-ja ci ha messo la sua odiata nonna. «Non mi piaceva perché non era pulita, diceva sempre che non aveva fame e saltava sempre il pranzo» e ha ammesso di aver capito lei e i suoi sacrifici solo quando si è avvicinata alla vecchiaia, «risparmiava tutto il cibo e l’acqua per noi». L’attrice coreana ha poi detto che interpretare la nonnina Soon-ja le ha dato modo di fare i conti con certi brutti ricordi.

Alan Kim e Yuh-Jung Youn in una scena di Minari, courtesy of A24

L’abbiamo detto che Yu-Jung Youn ama il cibo e dormire. Non solo attrice, ma in Sud Corea ha un reality, che conduce, intitolato Youn’s Kitchen, nel quale attori coreani si sfidano per aprire un ristorante pop-up in posti come Indonesia e Canarie. Doveva esserci anche una terza stagione, ma per il Covid è diventato un altro reality, Youn’s Stay, nel quale i concorrenti devono gestire dei bed & breakfast in Corea in stile Hanok. Nel cast c’era Choi Woo-Shik, attrice di Parasite: chi meglio di lei in un programma sull’ospitalità in casa?

Già biblicamente iconica, nelle sue espressioni e parole, Yuh-Jung Youn ha anche ammesso di non essere molto costante a lavoro. Nel discorso di accettazione ha ringraziato i figli perché «mi fanno uscire di casa e lavorare». Dice di essere diventata attrice a caso, non perché guidata da passioni. In realtà, già prima di arrivare in America era una grande star del cinema sudcoreano (ha esordito da giovane in The Fire Woman e ha recitato nel film di fama internazionale The Housemaid); poi si è sposata, ha lasciato il mondo del cinema, si è trasferita. Dopo qualche anno ha divorziato e, madre single, ha ripreso a recitare, «per sopravvivere e dare da mangiare ai miei due figli ho accettato qualsiasi ruolo».

E poi è arrivato Minari. Ha vinto prima il Bafta, che ha accettato riconoscente «di venire riconosciuta dagli inglesi, conosciuti per essere gente molto snob, e che mi abbiano approvata come una brava attrice»; poi l’Oscar. Quando, intervistata su Skype per promuovere il film si dimentica la telecamera accesa, e una giornalista la vede fumare una sigaretta elettronica con un calice di champagne in mano, lei le risponde «ho più di settant’anni, posso fare quello che voglio a casa mia». E noi, lasciateci invecchiare come Yuh-Jung Youn, per favore.

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